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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Gianfranco Ravasi
Lire Marc par Marx: no, non è una battuta di Groucho (Marx) destinata a proporre una lettura ironica del Vangelo di Marco; è un programma ermeneutico approntato da un teologo, Fernando Belo, nel 1974 secondo i canoni del materialismo storico. Questo che è, cronologicamente parlando, il primo dei Vangeli, fonte dei successivi Matteo e Luca, affidato a una narrazione di sole 11.229 parole greche, è stato in realtà strattonato anche verso altre interpretazioni estrinseche: citiamo il bagno nella psicologia del profondo in cui l'ha immerso il tedesco Eugen Drewermann (da noi il suo commento a Marco è stato tradotto nel 1994 dalla Queriniana), oppure la rilettura che René Girard ha fatto di alcune pagine marciane, secondo i moduli dell'antropologia culturale, nel suo Capro espiatorio (tradotto dal Adelphi nel 1987), e così via da parte degli altri studiosi lungo i percorsi dello strutturalismo, dell'analisi retorica e della narratologia.
Quest'ultimo approccio, il narrativo, è il più praticato e fecondo proprio perché Marco, con la secchezza del suo racconto, invita a riabilitare questa strategia per la comunicazione di fede. Essa, infatti, coinvolgendo autori, attori e lettori, permette di tenere in equilibrio i due versanti del genere letterario "Vangelo" che coniuga in sé story e history, ossia fatto ed evento, fenomeno e senso profondo, scena e fondamento, informazione e performazione, in pratica storia e fede. Per ricorrere a una suggestiva immagine del l'esegeta svizzero Daniel Marguerat, «la superficie narrativa dei Vangeli è porosa per cui, costantemente, attraverso la rete dei personaggi, il lettore è afferrato al cuore stesso del dramma che si svolge».
Ma perché riproponiamo l'attenzione a questo Vangelo, curiosamente monco (le finali a noi giunte sono, infatti, redazionali e diverse), poco letto nei primi secoli cristiani perché ritenuto sbrigativamente una sorta di riassunto di quello di Matteo? I cattolici praticanti sanno che, nel ciclo triennale del lezionario liturgico domenicale, il 2012 è appunto ritmato sul Vangelo di Marco. Agli altri vorremmo, invece, suggerire la lettura di questo testo evangelico perché è uno dei profili più netti e nitidi della vicenda di Gesù di Nazareth e della sostanza del suo messaggio. Certo, come sopra si diceva, non siamo in presenza di una mera biografia storica o di un verbale documentario. La via che Cristo percorre dalla Galilea fino a Gerusalemme non è un puro e semplice tracciato geografico e cronologico, ma è un percorso anche simbolico che stimola alla "sequela" o, come si dice con un curioso neologismo francese, alla "suivance".
Tuttavia, il protagonista, le sue opere e le sue parole sono state talmente decisive nella storia dell'Occidente da essere pure "laicamente" imprescindibili, anche qualora non ci si iscriva tra i suoi seguaci. A un primo incontro con questo Vangelo conduce Enzo Bianchi con un libro che è in pratica costituito dal solo testo marciano, introdotto da una guida destinata a offrire le coordinate indispensabili (metodo, contenuto, personaggi, temi, luoghi e tempi dell'azione). A chi vuole fare un passo ulteriore all'interno di questo Vangelo, probabilmente composto a Roma (abbondano i latinismi) prima della data fatidica del 70, l'anno del crollo di Gerusalemme sotto l'impatto delle legioni romane, è da poco a disposizione un nuovo commento di Giacomo Perego che, oltre alla tradizionale introduzione, ha il vantaggio di offrire nello stesso bifoglio sia il testo originale greco con una traduzione accurata, sia le note testuali-filologiche e l'esegesi tematica corrispondente. È naturale che qui è chiamato in causa chi vuole approfondire quel racconto nelle sue pieghe recondite, nei suoi snodi strutturali, nelle sue linee tematiche. Sorprendente, ad esempio, è in Marco "l'identità velata" del Messia Gesù, quello che già nel 1901 Wilhelm Wrede chiamava con una formula destinata al successo il segreto messianico.
È, però, possibile andare più avanti nello scavo del testo adottando al livello più alto la strumentazione storico-critica ed ermeneutica: è ciò che fa il belga Benoît Standaert col suo imponente commento in tre volumi. Curioso è il sottotitolo, Vangelo di una notte, Vangelo per la vita. L'ipotesi avanzata è sorprendente: «Marco è un testo letto integralmente, in una sola volta, in occasione di una veglia notturna fra il sabato e la domenica, quella della festa pasquale». È noto che anche gli Ebrei per la cena pasquale avevano elaborato un racconto drammatico, l'haggadah ("narrazione"), che costituiva il filo conduttore del rito. Il Vangelo di Marco – secondo Standaert – ne sarebbe l'equivalente cristiano, tenendo conto, però, che esso era il tracciato del percorso iniziatico destinato ad approdare al battesimo, impartito appunto nella notte di Pasqua.
«Dopo la lettura del Vangelo di Marco, ci si recava al fiume o al mare per battezzare i catecumeni e poi ci si ritrovava tutti insieme per il banchetto eucaristico celebrato il mattino presto». Non entriamo nel merito di questa ipotesi che certamente farà discutere gli esegeti; ricordo solo che anche a me – sia pure in contesto non liturgico – è accaduto di introdurre letture integrali di Marco in una sola sera, ad esempio con gli attori Franco Giacobini (che ha ripetuto l'esperienza a più riprese in tante città italiane) e Massimo Popolizio (a Prato nel 1995). Il primo fu, però, l'attore inglese Alec McCowen nel 1976; per Standaert, ovviamente, non si tratta di un evento drammaturgico bensì rituale, nel quale il grado di efficacia è "sacramentale", quindi trascendente, e lo sbocco finale è nell'annuncio angelico della risurrezione che ribalta l'epilogo tragico della crocifissione, scardinando così ogni parallelo con la tragedia greca.

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