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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Ha senz'altro ragione Margaret Atwood quando dice che le interviste della «Paris Review» costituiscono una panoramica ineguagliabile del mondo della scrittura nella seconda metà del Novecento. In effetti, dai primi anni Cinquanta novecenteschi all'inizio del terzo millennio la rivista americana ha costruito un archivio di racconti sul proprio lavoro di buona parte dei più celebri scrittori del secolo passato e contemporanei. Ma l'affermazione della narratrice canadese (nella prefazione al terzo volume, il penultimo della serie antologica proposta in italiano da Fandango; è in uscita, a giorni, il prossimo) a proposito delle lunghe conversazioni condotte da implacabili quanto preparati intervistatori suscita anche alcune domande: qual è il rapporto di una panoramica di tal genere – questa o un'altra simile – con una possibile storia della letteratura? Una panoramica "dal vivo" o "in diretta" è più veritiera, più approfondita di un percorso storiografico? O per dirla diversamente: gli scrittori sanno essere gli storici di se stessi? E gli storici letterari, quando mettono insieme e ordinano per segmenti riconoscibili il fiume di parole degli autori di cui si occupano, sono davvero in sintonia con il loro oggetto?
Quando nel 1953 il primo direttore della «Paris Review» George Plimpton, allora un giovanotto poco più che ventenne appassionato di libri, decise che la rivista sarebbe stata, per usare le parole della Atwood, «la dimora degli scrittori», le sue motivazioni erano forti ed evidenti. Le riassunse un suo collaboratore, il giovane all'epoca e irruento William Styron, dichiarando che era loro intenzione sottrarre la letteratura al lavoro eccessivamente teorico delle riviste culturali del tempo, che la stavano soffocando «sotto il peso della chiacchiera colta». Non era ancora cominciata la stagione dei book tour, cioè delle tournée promozionali in cui gli autori spiegano in lungo e in largo, talvolta a proposito talvolta fantasiosamente, le loro poetiche, né quella della dichiarazione e confessione e esibizione continua di cui i media si sarebbero fatti portatori. Coglierli sul fatto, cioè alla scrivania, con le mani per così dire ancora macchiate di inchiostro, in mezzo alle pagine appena redatte, aveva il fascino di una vera indagine: significava entrare nel laboratorio della scrittura, svelarne gli strumenti, le tecniche o semplicemente le abitudini, far confessare ragioni profonde e senso dell'ispirazione, mettere lo stile sul tavolo anatomico e smascherarne i segreti. In genere gli scrittori – le centinaia di interviste realizzate con i nomi più importanti della costellazione del secondo Novecento, almeno per la sempre più influente area anglo-americana, lo testimoniano – stanno al gioco, anche se molti all'inizio si mostrano riluttanti. Condividendo più o meno implicitamente la perplessità di Ernest Hemingway quando, nel 1958, ribadisce svariate volte che non si dovrebbe violare la scrittura esaminandola troppo minuziosamente («Perché sebbene una parte di scrittura sia solida e resista ai discorsi, ce n'è un'altra molto fragile che, con le parole, si rischia di infrangere»). Poi però, per cortesia, dovere, solidarietà umana, vanità, tutti parlano, tutti accettano di raccontarsi. Ma, e questo è il punto, tutte queste voci, quanto più sono personali e seducenti, tanto meno costituiscono un tutto, un insieme rintracciabile, una vicenda condivisa.
Certo, ci sono delle costanti. Se quasi tutti citano, in ordine diverso, i grandi nomi del realismo ottocentesco – secondo Saul Bellow, intervistato nel 1966, è «il più grande evento letterario della modernità» – per due autori diversissimi come Evelyn Waugh e Salman Rushdie si trova che Wodehouse è stato una indimenticata lettura di base della prima giovinezza; Martin Amis, John Cheever e Waugh dichiarano il loro disprezzo per la trama (per essere in pieno Novecento in fondo sono pochi a farlo). E ognuno di loro in un modo o nell'altro si dichiara convinto che la letteratura sopravviverà a tutte le mutazioni tecnologiche e dunque di consumo che il futuro riserva. Ma ognuno gioca per sé, in un doppio senso. Nessuno è disposto a riconoscersi parte di una corrente o di una tendenza – quasi nessuno parla dei suoi contemporanei – e rispetto all'aria del tempo tutti sembrano condividere l'affermazione che fa T.S. Eliot nel 1959: «Si cercava solo di capire che cosa andava bene per se stessi». Non solo perché, com'è ovvio, non esiste un'antropologia dello scrittore, e neppure un metodo di lavoro onnivalente (prima di ogni romanzo Simenon si faceva visitare dal medico per chiudersi poi in un ritiro assoluto, mentre Amis ritiene che due ore di lavoro duro quotidiano sono già un bel risultato). Altre e più interessanti sono le ragioni. In primo luogo, in area inglese e soprattutto americana, non c'è stata quell'estensione delle ideologie politiche alla letteratura che ha invece segnato l'Europa, sommamente nelle sue avanguardie, ieri, e nei vari appelli a confrontarsi con l' attualità, ovviamente in senso critico, oggi. Così che, di conseguenza, nessuno sente il bisogno di garantirsi con l'appartenenza a un gruppo o di giustificarsi con la Storia, la Politica, l'Etica con tutte le maiuscole del caso. Tutti parlano, invece, della personale tradizione che si sono costruiti leggendo, leggendo e ancora leggendo, non solo per apprendere a usare gli strumenti del mestiere ma per dotarsi, si direbbe, di uno stabile sentimento della letteratura, che per ciascuno deve essere individuale, e solo in minima parte, solo individualisticamente appunto, trasmissibile.

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