Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2012 alle ore 08:15.

My24

«La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro». Lo ha detto di recente Piero Terracina uno degli ultimi testimoni di Auschwitz ancora in vita. Sono parole dense che faccio mie e alludono a questioni che in Italia ci riguardano direttamente. Vorrei proporne tre: 1) abbiamo aperto una riflessione storica e critica sul passato oltre la commemorazione? 2) Abbiamo un calendario civile che esprima quell'idea di memoria? 3) Quella memoria ha un rapporto con la nostra quotidianità?
Storia della Shoah in Italia (Utet, 2010) è una grande opera che due anni fa un gruppo di storici (Simon Levis, Marcello Flores, Enzo Traverso, Anne Marie Matard Bonucci) ha proposto per ripensare quell'evento in relazione alle metamorfosi, della società italiana, nel tempo lungo tra Risorgimento e attualità indagando le lunghe premesse nell'Italia liberale, le vicende della persecuzione; mettendo l'accento sui perseguitati, i persecutori, la grande e diffusa indifferenza, ma anche sulla delazione, sulle sottrazioni di beni e cose; poi sul lento rientro e sulle molte forme di rappresentazioni di quella vicenda che "fanno memoria" di quell'evento (cinema, letteratura, arte, monumenti, web).
Perché quell'operazione culturale di alta qualità e innovativa, ha cozzato sostanzialmente nel silenzio? Che cosa significa fare politiche e pedagogie della memoria oltre la commemorazione? Questa è la questione che quella discussione mancata ci lascia in eredità.
Credo che in Italia oggi questa questione abbia un valore particolare, maggiore che in altri contesti nazionali europei, perché noi oggi siamo un Paese che non ha più un calendario di feste pubbliche, collegate alla propria storia, che abbiano una funzione pedagogica, riflessiva e soprattutto formativa di un ethos pubblico. Paradossalmente, perché siamo il Paese con più date memoriali nel proprio calendario.
Ha ricordato lo storico Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli) come negli ultimi dieci anni sull'Italia si è abbattuta una valanga di date. Oltre al 27 gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo; il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace». Poi abbiamo il 4 ottobre, «già solennità civile in onore dei Patroni speciali d'Italia San Francesco d'Assisi e Santa Caterina da Siena», dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse»; il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni.
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la sacralizzazione del passato e l'irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre date che ho elencato il «giorno della memoria» ha stabilito una sua "tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione internazionale (il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in quel giorno in Italia), ma anche in forza di una certa ambiguità.
Nel suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità – ha detto Wiesel – il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l'aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore di questa considerazione, tuttavia, non sta nel l'uso della parola, bensì nella funzione. Ovvero deve rispondere alla domanda: che ce ne facciamo della memoria?
Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l'oblio. È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse un merito (perciò l'ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi (e l'ha collocato tra le cose viste, ma di secondaria importanza). Nel caso dei carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in cui bisognava nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva sviluppare una doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico deve sempre tenere a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso di chi ha visto e non ha fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo rispetto ad altre cose che lo riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino in misura rilevante. Ma se «la memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro», l'operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal ricordare ma dal disagio che la memoria procura. La memoria è lo strumento che consente di valutare "gap" tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio "io" ha mancato in qualche punto. Una questione che mentre si preoccupa di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti del nostro presente e interroga in forma drammatica il nostro agire. L'episodio più eclatante in senso tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio che l'Europa ha provato, facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che quelle scene significavano se non dopo, a evento consumato, quando ormai negare non era più possibile.

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi