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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 08:15.

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Nel suo ineffabile franco-veneto, appena scialbato d'italiano, Antonio Canova racconta la sua prima visita a Villa Borghese: era il 15 ottobre 1779 e il giovane che sarebbe divenuto il primo artista di Roma non aveva ancora ventidue anni: «Giunsimo al palazzo il qualle è tutto al di fuori ripieno di bassi rilievi antichi, si salle per una scalla ove si entra in una Salla che sembra un Paradiso tutta incrostata di pietre bellissime con quattro belle statue antiche poste nelli locchi più addatti come un quasi dirò mausoleo di bella architettura. Vi sono poi altre statue e bassi rilievi, sopra la cornice incomincia la pitura del sofitto qual è grandissimo, verso il di dietro vi è un'altra salla non meno eccedente a questa, al di fuori cioè di dietro vi sono sopra piedistalli moltissime statue». Il Paradiso ospitava buona parte dei marmi antichi dei Borghese che avevano avuto un grande papa, Paolo V, e un grande collezionista, il cardinal Scipione. Il palazzo, in mezzo a un «grandissimo bosco ove eravi molti cervi», orti coltivati e giardini popolati da sculture e da fontane, era verso il 1780 in subbuglio: il principe, erede delle collezioni seicentesche, aveva iniziato da qualche anno a rimodellarlo. I lavori dureranno diversi anni ancora e il risultato fu abbagliante. Ma il principe morì col nuovo secolo e nel 1807 suo figlio, Camillo, marito infelice di Paolina Bonaparte, fu costretto a cedere la sua collezione di antichità, reputata allora il più alto florilegio di sculture classiche esistente, alla Francia. Roma rimase indiscutibilmente più povera e i Borghese non vennero mai saldati. La mostra che si tiene a Villa Borghese consente ad alcune di quelle opere mirabili di tornare per un po' di giorni al luogo dove si trovavano sin dal Seicento. La Villa del Cardinal Scipione non è quella che vediamo oggi e non è nemmeno quella che aveva ammaliato il giovane Canova. Fra il 1775 e l'inizio degli anni Novanta il Principe Borghese con l'aiuto di un brillante architetto, Antonio Asprucci e dei migliori artisti e mercanti di Roma rivestì il palazzo di marmi rari, di bronzi dorati, di mosaici e di affreschi, una sorta di padiglione di Armida nel gusto trasognato del romanzo di Jan Potocki, il Manoscritto trovato a Saragozza, ma per quanto io sia incline a questi sogni devo ammettere che quanto si fece allora ha più da spartire con gli ornamenti che con le opere d'arte vere. Nessuno degli acquisti di Marcantonio eguaglia quello dell'avo cardinale: nulla commissionò al Canova che pur conobbe né tanto meno a Louis David che avrebbe potuto interpellare quando il pittore si trovava a Roma (dove imparò prima l'arte e dipinse poi il quadro più famoso dell'epoca, Il Giuramento degli Orazi). Don Marcantonio restò sempre legato ai suoi privilegi e alle sue tendenze artistiche; e d'altra parte come dargli torto? Coi tempi che correvano era più prudente restare nei palazzi e nelle sagrestie che andare nelle piazze, continuare a riverire Pio VI che incontrare i giacobini. Come invece avrebbe voluto fare suo figlio Camillo, il quale come tutti i rivoluzionari teorici finì legandosi al regime autoritario che sempre si sostituisce alla rivoluzione. Nonostante tutto ciò (e nonostante la mia simpatia personale per il padre) Camillo Borghese fece molto per la gloria di Roma assicurando alla raccolta, che oggi è nostra, due capolavori assoluti, la Danae del Correggio e il ritratto di sua moglie Paolina nelle vesti, anzi nelle nudità, di Venere vincitrice, del Canova.
Siamo oggi in grado di poter indovinare quale era l'idea del mondo antico favorita da Don Marcantonio e da Asprucci e siamo grati ad Anna Coliva per la sua tenacia nella realizzazione, in tempi poco allegri, di questa straordinaria esposizione (assieme ai funzionari del Louvre). Ci è offerta, per poco tempo, l'opportunità di capire la visione, o meglio il fondale da teatro, del Settecento. Anche se appare, ovviamente, un po' sbiadito riesce comunque a ricreare dopo due secoli il senso di incanto che provava allora chi si avvicinava a quegli interni radiosi. È capitato anche a me di provare lo stesso entusiasmo quando visitai per la prima volta quelle stanze mezzo secolo fa. Le circostanze mi hanno consentito poi di ritrovare alcune vecchie carte su quei luoghi, e di incontrare nei sotterranei del Louvre alcuni marmi coperti di polvere nei quali indovinai descrizioni imparate a memoria come la Polimnia ora esposta a Roma. Potei così ricostruire idealmente alcuni ambienti della Villa. Ma non erano maturi i tempi e quando proposi nel 1992 di chiedere in prestito alla Francia diverse statue che erano esiliate nei depositi come testimonianze del cattivo gusto neoclassico, tutto cadde nell'indifferenza. Si preferì comprare un posacenere senza cenere – o è un calamaio vittoriano senza inchiostro? – da mettere in una vetrinetta accanto alla Paolina del Canova.
Ma torniamo all'oggi e ammiriamo lo sforzo che si è compiuto e il catalogo che si è approntato (abbastanza equilibrato anche se, come è fatale, chi scrive oggi tende a ricordare quel che ha fatto e a dimenticare quel che hanno fatto gli altri). Dovrei solo deplorare la mise en scène della bella rassegna. Sembra essere stata affidata a un appassionato di Lego o di Meccano: come scrisse in una sua recensione di molti anni fa Giuliano Briganti in certi casi sarebbe meglio che gli architetti restassero a casa. Ma copriamoci ogni tanto gli occhi e andiamo avanti.

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