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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 08:15.

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Ecco a Roma alcune opere che tornano alla luce in cui nacquero: la Venere marina che Winckelmann considerava quasi pari alla celeberrima Venere dei Medici, l'Ares Borghese, archetipo di bellezza virile nonostante un che di femmineo (che assieme all'anello che gli cinge la caviglia dimostra come si tratti di Achille e non di Marte). E infine il Centauro con le mani legate cavalcato da Amore (alcuni pensano che non sia Cupido, ma un genio bacchico) «opera di singolare morbidezza» in cui si fondono la parte umana e quella animale di noi tutti, lavoro insigne davvero anche per la profondità del pensiero che cela la sottomissione dell'intelletto a forze più crude come l'amore o l'ebrezza. È anche ammirabile come questo marmo sia sempre stato rispettato lungo i secoli: Nicolas Cordier lo sistemò con grazia nel 1608 e gli ideò un sostegno popolato di piccoli animali e di rettili descritti con la perfezione ossessiva di un giapponese dell'Ottocento. Altre mani l'hanno accarezzato: Algardi, Fancelli, Sibilla e così ha fatto non molto tempo fa Michel Cugnet salvando con discrezione la patina. C'è da sospirare davanti a questa malinconica lezione sulla vita: si osservi l'espressione rattristata del volto del Centauro che rammenta quella di Laocoonte; fu Winckelman a indicarlo con sottigliezza lirica. Quando si evoca la saggezza malinconica la mente va a Marco Aurelio: il grande busto che lo raffigura e quello compagno di Lucio Vero, contano fra i più nobili ritratti di Roma e tali sono stati considerati fin da quando vennero dissotterrati sulla Cassia nel pieno Seicento. Purtroppo, essendo così ammirati, furono fra le prime cose a lasciare Roma nel 1808. Il loro stato di conservazione è prodigioso e si vedono ancora quelle concrezioni dendritiche che indicano il contatto secolare con la terra. La mestizia quasi religiosa di Marco Aurelio e l'avvenenza e dignità di Lucio Vero sono rese alla perfezione; ecco un'opinione che cito, a rischio di essere pedante, come esempio di analisi e anche come invito a verificare di persona quanto riporto: «La novità, il gusto, l'intelligenza, la finezza dell'artefice, non può ammirarsi abbastanza né abbastanza conoscersi da chi non ha veduto questi incomparabili originali».
Quel che diventa ovvio attraverso questa rassegna è come il Cardinal Borghese sia uno dei maggiori collezionisti di tutti i tempi, toccato, si direbbe, da una fiammella che guidava ogni sua scelta. Non esiste marmo, quadro o bronzo a lui appartenuto che non abbia una sua particolare distinzione: sapeva indovinare l'artista giusto o almeno l'opera eccezionale di un artefice non eccelso. Il cardinale capiva l'eccezione guidato da un impulso particolare. Era un uomo ricco, potente, colto ma non era il solo ad avere queste qualità e la sua cultura non era forse troppo elevata né traboccante era il suo sapere. Il suo istinto, invece, andava dritto come una freccia, inconfondibile, anche in un'epoca che vide altri mecenati con doti forse maggiori delle sue, come il futuro Urbano VIII, Maffeo Barberini. Ma il gusto (adoperiamo la parola che tutti gli incerti temono di pronunciare) di Scipione Borghese era libero quanto elusivo. Fu lui fra i primi a volere a ogni costo dipinti del Caravaggio comprandoli, rubandoli (come fece con quelli appartenuti al Cavalier d'Arpino) o acquistandoli nonostante il Vaticano li avesse rifiutati (parlo della Madonna dei Pallafrenieri). Fu sempre lui a capire per primo un artista completamente diverso, il Bernini, al quale commissionò il suo più stupefacente capolavoro, l'Apollo e Dafne. Caravaggio-Bernini non è una miscela di facile comprensione: cupa e religiosa la notte del primo, pagano e solare il meriggio del secondo, comunque ambedue profondi e artefici magistrali, il recto e il verso di una stessa epoca. Fu Scipione a far dipingere a Guido Reni il sorgere dell'Aurora e del Sole in uno dei suoi palazzi, a raccogliere le più straordinarie antichità di Roma e a ordinare a Nicolas Cordier di sistemare quelle che apparivano incomplete. Almeno in due o tre occasioni lo scultore lorenese reinventa dei frammenti senza significato e li trasforma in opere memorabili. Non parlo tanto delle Tre Grazie, esercizio di stile dall'eleganza un po' algida, quanto del Moro e della Zingara, due straordinari mosaici tridimensionali formati con avanzi antichi di alabastro e di bigio intarsiati di altre pietre colorate in un caso e in bronzo patinato e dorato nell'altro. Nel Moro questa tarsia di pietre è condotta con una tale intelligenza che l'orlo della veste sembra muoversi come stoffa. Nel tardo Settecento queste opere bizzarre vennero installate nella Stanza Egizia che è per qualche settimana un tripudio di colori, un mausoleo faraonico. Fu dissepolta dal saggio di Pierre Arizzoli-Clementel di trent'anni fa col quale iniziò la disamina della villa nell'epoca di Don Marcantonio. Le ricerche successive hanno reso possibile correggere le derestaurazioni intraprese da grandissimi studiosi, come Jean Charbonneaux, purtroppo dotati di un modesto senso estetico e che non avevano esitato a ridurre a monconi opere per metà settecentesche. In altri casi la stessa sicurezza senza dubbi di un'epoca si dimostra benefica per quella successiva. Così i commissari di Napoleone non vollero i marmi del Bernini, dunque il classicismo barocco di Roma non toccava il cuore dei pedagoghi dell'Impero.
Non potrei allontanarmi oggi da Villa Borghese senza salutare Polimnia, musa della memoria e figlia di Mnemosine (ossia mente, ricordanza o rimembranza) a cui si attribuisce anche la taciturnità o il silenzio. Paradossalmente nessuno ricordava più il marmo della Memoria, un'opera per metà antica e per metà moderna, amata dai contemporanei quando nel 1780 Agostino Penna trasformò un frammento in un'opera d'arte, una felice evocazione dell'antichità.

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