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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 08:13.

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Nell'Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è stato anzitutto un "caso" letterario: l'inaspettata rivelazione di un grande romanziere giunto alla scrittura in età avanzata, rifiutato dal più autorevole intellettuale del tempo (Elio Vittorini) e pubblicato, postumo, da un altro grande nome delle lettere italiane (Giogio Bassani); il tempestivo riconoscimento critico (Carlo Bo, Eugenio Montale, Goffredo Bellonci) e l'unanime successo di pubblico; le polemiche politiche sul presunto conservatorismo e antistoricismo dell'autore, alimentate da una battuta che ha finito per compendiare il senso dell'intero romanzo («Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»); gli strali e le ironie degli autori della neoavanguardia contro un libro accusato di essere esemplato su improponibili modelli ottocenteschi; l'entusiasmo dei primi lettori internazionali (Louis Aragon, E.M. Forster); l'adattamento cinematografico di Luchino Visconti... Una vera e propria bomba nell'Italia che, sulla scia dei "fatti di Ungheria" e della destanilizzazione in Unione Sovietica si avviava a lasciarsi dietro il decennio di ferro della guerra fredda culturale.
Più tardi, una volta che il Gattopardo si è imposto stabilmente tra i classici del XX secolo, il "caso Lampedusa" ha lasciato il posto al "mistero Lampedusa". Da dove diavolo era saltato fuori un simile scrittore? Poiché difficilmente un romanziere di tale caratura nasce dal nulla – l'imperativo diventava fare luce sull'antefatto, la cultura, la psicologia di uno scrittore "implicito" che aveva atteso tutta la vita a manifestarsi e che era arrivato al romanzo troppo tardi per vedersi riconosciuti meriti e talento. A poco a poco, così, hanno cominciato ad apparire una manciata di testi più brevi e di frammenti di lavori nuovi, articoli giovanili pubblicati sotto pseudonimo, lettere – alla ricerca della preistoria tematica e stilistica del Gattopardo. Ma è stata soprattutto la pubblicazione del corpus di lezioni che Lampedusa stendeva per iscritto per i due suoi giovani amici e "allievi" Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomasi a dissipare gli equivoci, rivelando a tutti (nel 1995) uno dei più straordinari lettori del secolo scorso: perfettamente a proprio agio con le principali letterature europee (francese e inglese soprattutto), gustate direttamente in lingua originale e con un'attitudine già da narratore in potenza a concentarsi sui problemi tecnici e sui dettagli meno visibili al non addetto ai lavori. Il Gattopardo, evidentemente, non era nato adulto dalla testa di Zeus.
Sino a oggi le pagine più belle su Lampedusa sono state scritte da quanti lo avevano conosciuto di persona (il già ricordato Francesco Orlando e, in parte, Giuseppe Paolo Samonà), o invece da studiosi nati o vissuti lontano dall'Italia, al riparo dalle polemiche meschine che accompagnarono l'apparire del romanzo (a cominciare da un grande "esule" della critica italiana come il compianto Edoardo Saccone). Si sottrae ora a questa dicotomia Il principe fulvo di Salvatore Silvano Nigro, illustre collaboratore di queste pagine, un affascinante racconto critico che getta nuova luce sul Gattopardo.
Prossimità e distanza sono in queste pagine altrettanto coltivate perché altrettanto necessarie. Nemmeno Nigro, per intenderci, rinuncia a sfruttare testimonianze orali e a mettere a frutto la conoscenza di dettagli della letteratura o della vita siciliana che soltanto un corregionale di Lampedusa possiede – come quando per esempio ricostruisce la non trascurabile storia nelle nostre patrie lettere dell'albergo Trinacria di Messina, da Cesare Abba a Federico De Roberto, offrendo al lettore un reticolato di riferimenti che gli consente di leggere in maniera inedita l'episodio decisivo della morte del principe. Allo stesso tempo però Nigro non cade nella facile trappola della sicilianitudine. Lampedusa è ormai un classico della letteratura non solo italiana e, sulla scia di Orlando, Il principe fulvo privilegia anzitutto la dimensione europea del Gattopardo – l'intrecciarsi della lezione di Welles e di Fielding (di Dickens e di Stendhal), la cospicua intertestualità o il particolare orizzonte mentale di un autore che evidentemente non si è mai pensato, in quanto romanziere, che nel consesso, tutto internazionale, dei narratori e dei poeti sulle cui pagine ha formato il proprio gusto.
Lampedusa lettore e Lampedusa scrittore procedono di concerto: e come il primo disseziona i testi al microscopio, così il secondo lavora di cesello. Nigro lo sa, ed è anche per questo che procede accumulando piccoli indizi, come quando sottolinea il ripresentarsi di una stessa immagine in contesti diversi o ci invita a ragionare su non casuali rispondenze (anche con la storia extraromanzesca, come nel caso della coincidenza cronologica tra la morte del principe e la nascita di Mussolini). Detto in altri termini: è la stessa qualità della scrittura di Lampedusa, sospesa tra pieni e vuoti, a imporre un simile stile di lettura. Lampedusa è un maestro indiscusso dell'allusione ma ancor più della perifrasi, ovvero dell'abbondanza al servizio della opacità. Capita spesso, così, che le descrizioni del Gattopardo siano sovraccariche di dettagli ma anche che l'autore eviti accuratamente di nominare in maniera diretta l'oggetto o l'evento rappresentato con tanta precisione, con il risultato che a volte la sua vera natura rimane solo incerta (come nella scena in cui Angelica e Tancredi scoprono nel castello una vecchia stanza una volta destinata ai passatempi del marchese de Sade). Ma Lampedusa rifiuta di dire di più: come se un preciso codice di etichetta romanzesca sconsigliasse di chiamare con il proprio nome quello che i lettori (dei lettori immaginati a propria immagine e somiglianza) dovrebbero essere in grado di riconoscere. Non fosse altro che per non offenderli dubitando della loro perspicacia.

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