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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2012 alle ore 18:22.

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Lo scorso 24 dicembre abbiamo pubblicato sul supplemento Domenica un articolo di Massimo Gatta: «Come impallinare i refusi». L'articolo conteneva volutamente alcuni refusi e due errori, inseriti dall'autore come sfida ai lettori. I quali hanno risposto prontamente e con notevole acribia filologica. Tuttavia se è stato facile individuare i refusi, nessuno ancora ha individuato completamente gli errori. Lo ripubblichiamo online per consentire di nuovo il gioco.

Una strana complicità, e insieme una secolare caccia, unisce i refusi ai correttori di bozze. Una giocosa competizione, una forma laica di religione: da una parte la rivendicazione all'errore e all'erranza, tipico del refuso e del suo libero arbitrio; dall'altra il bisogno di mettere ordine, di disciplinare la scrittura, metterla in riga (perfetta e calzante espressione), organizzare il pensiero entro i binari di una forma adeguata, pulita, impeccabile. Refusi e correttori di bozze sono entrambi figli della tradizione tipografica, un fiume carsico che penetra, scompare, riappare. Nessuno dei due potrebbe esistere senza l'altro. Un refuso senza il correttore che gli da la caccia è un assurdo. Del resto, ed è un fatto consolidato, non si da correttore di bozze senza refuso. A caccia di chi andrebbe del resto? Il correttore di bozze ha una tradizione secolare. Si dice che Aldo Manuzio potesse contare su correttori e revisori d'eccellenza come Erasmo, tanto per dirne uno. Oggi sarebbe impensabile.

Del resto la professione venatoria del correttore è professione nobile, blasone che non tutti possono vantare. Leo Longanesi, che se ne intendeva sia di refusi che di correttori, scrisse nel suo diario: «Domenica. Nella tipografia, deserta e grigia, i profili delle macchine, silenziose e solenni. La libertà di stampa dorme sulla scrivania del correttore di bozze» (La sua signora). Al correttore di bozze dedica addirittura un intero romanzo il critico George Steiner, Il correttore (1999). Il protagonista, di volta in volta il «Gufo» o il «Professore», (il modello era il filologo Sebastiano Timpanaro, per anni correttore di bozze presso La Nuova Italia) è un correttore leggendario per la sua esattezza, sia tecnica che ideologica; del resto per lui, comunista, correggere gli errori in un testo come anche gli errata dalla Storia rappresenta quasi un atto etico. Anche Goffredo Bellonci scriverà di questo artigiano della stampa ne Il correttore di bozze (1952), una storia scaturita dalla sua lunga frequentazione notturna di fumose tipografie romane, in compagnia di quei pazienti e attenti lavoratori.

E di recente almeno altri tre titoli ci riportano direttamente a questo antico mestiere legato alla tipografia: Il correttore di bozze di Francesco Recami (Sellerio, 2007), Il correttore di bozze. Racconto in versi, di Gianni Trinca (Aletti, 2008) e infine Il correttore, di Ricardo Menéndez Salmòn (Marcos y Marcos 2011). Ma tra i manuali venatori della caccia tipografica al refuso chi meglio di un Pompeo Bettini col suo Il correttore di bozze nella tipografia moderna (Milano, Scuola Professionale Tipografica, 1891), o di un Giuseppe Ugo Oxilia, il quale dedica un intero capitolo all'errore, Fra i refusi, nel suo raro opuscolo Nel regno dell'errore (Chiavari, Tipografia Esposito, s.d. primi del ‘900). Ma il refuso potrebbe anche rappresentare quel punto errato presente nella trama e nell'ordito dei tappeti tessuti a mano dai sapienti nomadi islamici, il quale ci ricorda che solo Dio è perfetto, mentre l'umano per quanto sublime ha comunque sempre una nota imperfetta; oppure, similmente, quanto accade tra le donne tessitrici del popolo Navajo, ricordato da Emilio Cecchi nel suo Messico: "Quando una donna Navajo sta per finire uno di questi tessuti, essa lascia nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda; «affinché l'anima non le resti prigioniera dentro al lavoro». […] vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell'opera, saldandosi invisibilmente sopra se stesse, costituirebbero un labirinto senza via d'uscita; una cifra, un enigma di cui s'è persa la chiave. […]

E non è anche la spiegazione perché certi grandi artisti misero sempre nella propria opera un segno d'incompiuto; quasi un invito al mistero, alla collaborazione naturale?". Mi viene in mente un bellissimo, vecchio racconto di Thomas Blodgett, The Double Mistake, stampato fuori commercio (Oxford, The Black and White Crown, privately printed, 1927), nel quale i due protagonisti, William J. Storck e James Hoolmann, rispettivamente uno scrittore di dubbio talento e il suo piccolo, modesto editore, entrano in contatto proprio attraverso le bozze del libro che Storck sta ultimando. Ora la novità del racconto, e direi la sua straordinaria modernità considerato l'anno di stampa, sta nel fatto che lentamente il rapporto autore-editore lentamente si inverte. Infatti Hoolmann, che tra le altre cose dovrebbe correggere forma e refusi nello scritto del suo autore, col tempo ne diventa quasi il coautore, cancellando periodi, frasi, espressioni e sostituendoli con le proprie. A sua volta Storck, riavute dall'editore le bozze corrette, si accorge che molto è stato tralasciato, non corretto e a sua volta ne diventa, appunto, il correttore. I ruoli alla fine si invertono e sia l'uno che l'altro scoprono d'avere talenti nascosti. Finirà che Hoolmann, l'editore, pubblicherà il romanzo ormai quasi del tutto divenuto suo; e Storck, a sua volta, prenderà in posto dell'editore in casa editrice diventandone sia il correttore di bozze che l'editor. Questo di Blodgett è un breve racconto, del tutto dimenticato, che per la sua fulminea capacità di introspezione psicologica dei due personaggi rappresenta un piccolo capolavoro, oltre ad essere tra i primi lavori letterari dov'è così chiaramente descritto il travaglio dello scrittore, quello dell'editore e del correttore di bozze.

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