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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 15:19.

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Non è un caso che il libro che nel Novecento ha più "riflettuto" sulla vita offesa, Minima moralia di Adorno, contenga meditazioni sull'errore: «Non c'è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo. Non essere mai avari nelle cancellature» (Dietro lo specchio, 1945). Oltre quattro secoli prima Erasmo, in procinto di pubblicare la seconda edizione dei suoi Adagia a Rialto, all'insegna dell'Ancora e del delfino di Aldo Manuzio, ha elegantemente sintetizzato quello che costituiva, ai suoi tempi, l'essenza del canone aldino in ambito redazionale (quegli umanisti dalle dita macchiate di inchiostro, parafrasando l'ottimo saggio di Anthony Grafton, Humanists with Inky Fingers. The Culture of Correction in Renaissance Europe, Firenze, Olschki, 2011). Scrive Erasmo: «è un'impresa erculea e degna di una mente eccezionale restituire un mondo in certo senso divino che è andato quasi completamente perduto, cercare dove è nascosto, ridare la luce che era stata tolta, infondere la vita là dove era estinta, ricostruire i passi mutilati, emendare i luoghi svisati in innumerevoli modi attraverso l'errore e l'incuria degli stampatori». E furono proprio gli Adagia erasmiani che, nel 1508, inaugurarono in fondo un nuovo corso: la collaborazione tra dotti e artigiani.

Molto dopo Erasmo, e lo stesso Adorno, ci si è progressivamente allontanati dall'idea di perfezione, perché il libro nel quale essa si collocava un tempo non era più considerato un oggetto fisico significativo. Un tempo quegli errori, che Erasmo giustamente riteneva avessero tolto luce al testo, erano anch'essi paradossalmente considerati preziosi e tali da essere ricercati ed eliminati caparbiamente in vista di una più ampia perfezione del volume. Il libro, insieme al suo testo (non essendo la stessa cosa testo e libro), aveva una dignità che andava ben al di là del mero valore monetario e che bisognava salvaguardare. Erano oggetti difficili, dove è la stessa bellezza, con Ezra Pound, ad essere difficile. Ma erano anche libri eseguiti con atteggiamento preciso, la stessa predisposizione indicata da Italo Calvino come punto di partenza inalienabile per ogni agire umano: «puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno». Ecco, se dovessi indicare una metodologia è questa che indicherei a un giovane che volesse fare il correttore di bozze, il revisore editoriale, o l'editor.

La svalutazione del libro come oggetto significativo ha portato lentamente al lassismo nei confronti del refuso come presenza inaccettabile, lasciandolo alla sua relatività; surrogando e trasferendo all'arbitrarietà della macchina (il correttore automatico) il patrimonio di un tempo che era, ancora con Grafton, custodito nelle dita dei correttori. Non è la svalutazione del testo ma del libro che ha portato, da Adorno in poi, al lento oblio del correttore come testimone di un valore. Sacrificare il controllo testuale alla tecnica ha progressivamente portato all'idea che non fosse (più) necessaria la testimonianza del correttore. Il valore del testo resta storicamente stabile nel tempo, mentre diventa sempre più aleatorio e transeunte quello del libro (la moltiplicazione insensata dei libri porta a questo, e soprattutto al macero).

C'è stato un momento in cui è avvenuta la rottura del patto testuale, dove testo e libro sono diventati entità autonome, caratterizzate ciascuna da un valore volubile. Solo nella tipografia privata, dove a volte sia la composizione che la stampa sono manuali, così come la correzione delle bozze (il carattere errato viene estratto con le dita e sostituito), il testo e il libro tornano a essere una sola entità significativa, indissolubile. In essa il patto testuale si rinsalda nell'elevato valore dell'oggetto (ovviamente non solo monetario), ritrovando una sua coerenza.
Franco Riva, tipografo "domenicale", bibliotecario e raffinato filologo, sosteneva che stampare al torchio non fosse fare dell'archeologia, perché solo in esso era consentito compiere ricerche e ottenere risultati, ormai impensabili per l'industria grafica. «Non avrebbe senso stampare di domenica con un offset – scriveva – anche se l'avvenire è proprio un avvenire offset».

Un tempo il destino quasi naturale del libro erano le biblioteche, viste come approdo di una presenza significativa (il volume nella sua interezza di testo/libro). Ora che le stesse disertano il contatto coi libri, sembra superfluo dedicare loro un'adeguata revisione, demandata invece al freddo e veloce contatto informatico: il destino del testo (non del libro) è quello di essere consumato, lo stesso lettore diventa consumatore di testi, quando non è (sempre più raramente) un utente di biblioteca.
L'avvento del controllo testuale automatico ha creato una doppia illusione, un'utopia ancor più cogente: la perfezione e la perfettibilità. Mettere ordine era il progetto dei grandi umanisti/revisori, così come dei filologi nei quali diventa anche scrupolo morale (per la Cassazione, infatti, la correzione di bozze fa parte dei "diritti morali d'autore"). Come tale esso fu alla base dell'intero sistema, come grande filologo e scrupoloso correttore di bozze (per anni a "La Nuova Italia"), di Sebastiano Timpanaro che in Proofs di G. Steiner (1992, trad. Il correttore), offre al protagonista alcuni suoi lati biografici (non ultimo il credo comunista). Correggere gli errori nel testo così come, marxianamente, gli errata nella Storia, rimettere le cose a posto, riordinare le idee, questi gli obiettivi del protagonista del romanzo. A tale proposito lo stesso Steiner ha scritto che «correggere un errore tipografico non è piccola cosa: significa credere in un mondo dove possono esistere l'esattezza e la verificabilità. Tutto ciò può rinviare simbolicamente a una utopia della precisione. Il correttore di bozze, come il rivoluzionario, è un uomo che lavora per un sogno molto utopico. Non esiste, infatti, un'edizione perfetta. Anche la migliore edizione conterrà sempre qualche errore» (2006). Infatti l'errore irrompe, anche se solo talvolta, fortuitamente e casualmente (è cioè symbebekos, con Aristotele), a corrompere la vita di un testo; ma è anche grazie a lui che si evidenzia la corruttibilità dello stesso, la possibilità cioè di incrinarne la perfezione formale, per quanto irraggiungibile. E non esistendo quasi più la figura del correttore di bozze, «la libertà di stampa dorme sulla sua scrivania» (Longanesi).

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