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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 08:14.

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All'interno di Per legge superiore – il nuovo romanzo di Giorgio Fontana, che seguendo di alcuni mesi la riflessione sul presente italiano, contenuta in La velocità del buio (Zona 2011), conferma l'attitudine coraggiosamente analitica dello scrittore milanese, riscontrabile anche dalla lettura del suo blog – si attivano due percorsi che entrano in dialogo con due differenti film.
Nell'incipit, il Palazzo di Giustizia di Milano cade a pezzi: il marmo è attraversato da crepe e l'intera struttura è stata imbracata in un'armatura di lastre in cui penetrano chiodi a espansione. Osservandoli, Roberto Doni, il sostituto procuratore ultrasessantenne protagonista del romanzo, riflette: «Quegli oggetti avevano qualcosa di morale, naturalmente. Il luogo della Giustizia piegato alle leggi più alte della materia».
Vengono in mente le sequenze di un film nodale per la comprensione di come possa declinarsi la giustizia in Italia.
Quando nel 1971 Dino Risi dirige In nome del popolo italiano, la sceneggiatura di Age & Scarpelli prevede che il luogo dove si amministra il diritto sia così pericolante da imporre un trasferimento d'urgenza in un'altra sede (una caserma, con tutte le implicazioni metaforiche del caso).
Se il tribunale è lo spazio in cui si articola il potere giuridico, questo è senz'altro tarato sulla caducità umana, sui suoi vacillamenti, sul suo impulso al crollo. In Per legge superiore, il Palazzo è intenzionalmente unidimensionale e privo di doppifondi: l'amministrazione della giustizia non ha a che fare con i segreti ma con una prosaica umanissima trascuratezza (parafrasando Hannah Arendt potremmo parlare di una "banalità del bene" – o del tentativo di compierlo).
Roberto Doni – un'ultima porzione di carriera da perfezionare, un legame fragilmente robusto con la moglie Claudia, geografia e sensibilità che lo scagliano a distanze siderali dalla figlia Elisa – attraversa questo involucro nella consapevolezza che la legge è «la sola approssimazione della giustizia che abbiamo».
Da parte sua nessuna esaltazione dei legislatori (tutt'altro: per Doni il disincanto è uno sguardo sul mondo che si sottrae tanto alle idealizzazioni quanto alle demonizzazioni, un punto di vista che riduce il riverbero emotivo quasi a zero); soltanto la certezza che questa approssimazione – opinabile, migliorabile – è uno strumento del quale non si può fare a meno.
Fino al giorno in cui qualcosa mette in crisi la percezione del mondo a cui Doni ha scelto di affidarsi.
Qui si attiva il secondo percorso, in dialogo stavolta con una narrazione cinematografica che nel 1957 aveva raccontato il legame necessario tra giustizia e dubbio.

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