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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2012 alle ore 17:50.

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Davvero clamorosa la censura perpetrata dalla «Civiltà cattolica», la rivista dei gesuiti sottoposta al controllo diretto della Segreteria di Stato vaticana, ai danni di un articolo commissionato dalla rivista stessa al presidente della Fondazione Stensen dei gesuiti di Firenze, padre Ennio Brovedani. Questi aveva ricevuto qualche mese fa l'incarico di presentare i risultati di un importante congresso di studi su il "Caso Galileo", una rilettura storica, filosofica e teologica, inaugurato alla presenza del presidente della Repubblica nel 2009, con la partecipazione di alcuni dei massimi studiosi mondiali. Le equilibrate riflessioni del padre Brovedani erano state sottoposte a non pochi tagli, ovviamente sui punti più sensibili di un nervo perennemente scoperto dell'identità storica della Chiesa.

Perché, come tutti sanno, Galileo aveva avuto ragione e Bellarmino (anzi, san Roberto Bellarmino, proclamato dottore della Chiesa nel 1931) aveva avuto torto; lo scienziato aveva visto giusto nel capire il linguaggio della natura, mentre il teologo aveva grossolanamente sbagliato nel capire il linguaggio della Bibbia. Questione molto delicata, perché il suo errore era diventato verità di fede. Insomma un brutto pasticcio, dal quale si credeva che la Chiesa fosse venuta fuori (sia pure con tenaci ambiguità) con il perdono chiesto da papa Giovanni Paolo II in occasione dell'Anno giubilare tertio adveniente millennio per i soprusi dell'Inquisizione contro la libertà di coscienza proclamata dal Concilio Vaticano II.

Perché allora tornare a esercitare l'autoritarismo censorio sulla stessa questione sulla quale quattro secoli fa lo stesso autoritarismo censorio aveva clamorosamente fallito? Molte sono le risposte, a cominciare dal fatto che le questioni scientifiche sono tornate al centro dell'interesse della Chiesa per le loro implicazioni morali: fecondazione assistita, staminali, accanimento terapeutico eccetera. L'esperienza suggerirebbe di tenersene lontani, ma la pervicace volontà dei teologi di avere l'ultima parola in quanto detentori della verità sembra dura a morire. C'è poi il bisogno di controllare la storia, perché per un cristianesimo che ha eretto la propria storia a fonte della Rivelazione è difficile distinguere tra l'infallibilità della Chiesa in quanto tale e la fallibilità degli uomini che la governano. E c'è infine il fatto che quella libertà di coscienza che è iscritta a lettere di fuoco nella vicenda galileiana, la cui affermazione sembrava essere una conquista del Vaticano II, è oggi messa in discussione. Certo, affermare tale principio costituì a suo tempo una svolta storica, un cambiamento radicale, segnato anche dall'ecumenismo, dal dialogo interreligioso, dalla nuova liturgia della messa eccetera, che vede oggi una vistosa marcia indietro che coinvolge non solo i conservatori più chiusi e intransigenti, ma investe i vertici stessi della gerarchia ecclesiastica. Il problema è quindi grave e serio.

Proprio per questo merita riassumere brevemente un episodio raccontato da Paolo Simoncelli in un libro apparso nel 1992 con il titolo di Storia di una censura. «Vita di Galileo» e Concilio Vaticano II. Vi si narra la vicenda di una biografia del grande scienziato pisano, che nel 1942 il presidente dalla Pontificia Accademia delle Scienze, padre Agostino Gemelli, affidò a monsignor Pio Paschini, un dotto e probo studioso di storia ecclesiastica, che lavorò intensamente durante la guerra, tanto da poter spedire il "manoscritto definitivo" al cardinal Giovanni Mercati all'inizio del '45. Poi tutto si incagliò: l'opera non piacque alla congregazione del Sant'Ufficio né a padre Gemelli, che lasciò senza risposta una vibrata lettera per chiedere spiegazioni inviatagli da Paschini dopo un anno esatto di assoluto silenzio. Questi si rivolse allora a Giovan Battista Montini, il futuro Paolo VI, allora sostituto alla segreteria di Stato, che gli lesse il documento fattogli avere dai supremi custodi della fede in cui, oltre a insistere sul consunto argomento che le prove addotte a favore della centralità del sole nel Dialogo sopra i massimi sistemi presentavano qualche falla, si dichiarava inopportuna la pubblicazione di un libro giudicato come nulla più che un'"apologia di Galileo". Per bocca dell'allora assessore e in futuro onnipotente cardinale Alfredo Ottaviani, il Sant'Ufficio giunse al punto di proporre al povero Paschini di pagargli il manoscritto, e fece orecchio da mercante alla sua disponibilità di attenuare i giudizi meno benevoli sugli avversari di Galileo. Fu Montini a fargli pervenire un assegno di 20.000 lire «come supplemento a quanto Le è stato corrisposto» per le spese da lui sostenute e «a saldo» del lavoro.

E non era finita lì, anzi il peggio doveva ancora venire. Paschini morì nel 1962 e due anni dopo il suo libro uscì postumo per ricomparire poi ancora l'anno dopo con una Nota introduttiva del gesuita belga Edonde Lamalle che aveva avuto l'incarico di rivedere quel «manoscritto definitivo» per aggiornarlo sulla base dei «progressi della ricerca» intervenuti nel frattempo. Dettagli eruditi, spiegava Lamalle, che invece vi esercitava una costante censura, con piccoli e grandi cambiamenti, tutt'altro che «interventions très discrètes» (tra l'altro volti anche ad attenuare le brutte figure dei suoi antichi confratelli gesuiti), in cui si attribuivano a Paschini pagine intere che Paschini non aveva mai scritto, si modificavano e talora si rovesciavano i suoi giudizi. Fino all'indecenza di trasferire in nota il giudizio conclusivo dell'autore sulla condanna di Galileo, facendolo tuttavia accompagnare dalle parole: «Nessuno storico serio potrebbe ancora sottoscrivere semplificazioni di questo genere». Si attribuiva così a Paschini la puntigliosa condanna di quanto egli aveva scritto e pensato. L'ignominiosa censura diventava così consapevole falsificazione.

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