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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 15:32.

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Veduta anticamera Palazzo Marigny a ParigiVeduta anticamera Palazzo Marigny a Parigi

Molti anni fa, verso il 1980, venni a sapere che il Barone Elie de Rothschild intendeva cedere una scultura di Antonio Canova. Conoscevo bene quel marmo di notevoli dimensioni, alto circa due metri, che ornava il vano di una delle due scale dell'hôtel de Masseran a Parigi, non lontano dalla Esplanade des Invalides, dove spesso ero ospite. Si trattava di un edificio costruito nel più delicato gusto neoclassico da Alexandre-Théodore Brongniart, alla fine del Settecento, per un diplomatico piemontese, il Principe di Masserano che era stato ambasciatore a Londra.

Ai primi anni del Novecento l'hôtel de Masseran (come continua a chiamarsi ancora oggi) appartenne a Étienne de Beaumont, uomo assai noto nella Parigi fra le due guerre, amico di Picasso, di Cocteau e dell'autore di un capolavoro della letteratura francese, Raymond Radiguet. Radiguet, nel suo romanzo Le Bal du Comte d'Orgel, utilizza sia il palazzo sia il suo proprietario come fondali della sua storia. Lo scrittore morì a vent'anni, Beaumont gli sopravvisse lunghi decenni e divenne vecchio come il suo mito.

Nel 1955, dopo la guerra e gli anni di prigionia e di esilio, Elie e Liliane de Rothschild si installarono a rue Masseran. La Baronessa, a cui ero legato da affetto e amicizia (l'avevo conosciuta da studente a Firenze dove viveva sua madre, figlia del banchiere di Francesco Giuseppe) aveva arredato il palazzo con gusto e magnificenza. Liliane poteva contare su molti objets Rothschild, su altri della sua famiglia Fould-Springer e su nuovi acquisti: arte moderna e contemporanea, antichità cicladiche e achemenidi, souvenirs di Maria Antonietta, l'ultimo ritratto di Madame Du Barry. In seguito ebbi occasione di conoscere ancora meglio quella casa quando dovetti occuparmi dell'edizione italiana di Great Private Collections di Douglas Cooper, pubblicato a Londra da Widenfeld e a Milano da Feltrinelli nel 1963.

Ma in quel libro non si vede la statua del Canova forse perché ancora non si trovava a rue Masseran. Forse anche per un'altra ragione: si faceva il nome di Canova ma in realtà il marmo non era mai stato pubblicato e la sua storia era dimenticata. Le opere d'arte sono come le persone e talvolta perdono i connotati, diventano anonime anche se è sempre possibile ritrovare la loro identità. Così anni dopo (ma non so esattamente quando) mi accadde spesso di ammirare la Danzatrice del Canova a rue Masseran: ogni volta mi sorprendeva la levigatezza della superficie, la cura meticolosa di ogni dettaglio, dall'unghia del piede all'incavo dei condotti nasali traforati con una perizia artigianale ossessiva (sarebbe bastato un colpo disattento per spaccare la pietra). E questo solo un sommo scultore come Bernini e, appunto, Canova è in grado di farlo: mi pare di non aver mai nutrito il dubbio che il lavoro fosse di mano del maggiore statuario neoclassico, l'unico artista dell'epoca in grado di raggiungere un così prodigioso virtuosismo. Sapevo che la scultura proveniva da Vienna e che si trovava da molti decenni a Parigi e pensavo che essa non poteva non essere l'originale della Danzatrice coi cembali scolpita per il Conte Andrea Razumovskij (1752-1836) ambasciatore russo a Vienna, attorno al 1812. Razumovskij, famoso ai giorni suoi, era mecenate di artisti e di musicisti come Beethoven e figlio di un altro ambasciatore russo a Vienna, Cirillo Razumovskij, ritratto da Pompeo Batoni fra i capolavori della scultura classica in Vaticano.

D'altra parte che il marmo dei Rothschild fosse di Canova mi risultava palese: il gesso originale nella Gipsoteca di Possagno corrispondeva esattamente, per quanto danneggiato, alla statua di Parigi. Sapevo anche che il marmo originale era ancora ignoto: non poteva essere dunque, data la sua squisita fattura, che quello dei miei amici. Ma non ero in grado di dimostrare ciò che mi appariva evidente. Posso affermare che ogniqualvolta io abbia cercato di convincermi dell'autenticità di un'opera attraverso la mente piuttosto che attraverso l'occhio, mi sono sbagliato. È l'istinto, con tutti i sostrati di esperienza animale e intellettuale che lo compongono, a dover aprire la strada: dopo ci si avvale delle nostre conoscenze storiche e artistiche.

1980: cominciavo in quella stessa epoca la mia consulenza presso la Galleria Colnaghi di Londra e così mi venne chiesta la mia opinione su quel capolavoro. Dissi quel che pensavo e la Galleria iniziò le pratiche di acquisto. Passati un paio di mesi seppi che le autorità avevano dato il loro beneplacito. Questa decisione se da una parte fece piacere alla Galleria dall'altra mise tutti in allarme: perché il Louvre non si avvaleva del suo diritto di prelazione? Avevano dei dubbi sulla autografia del marmo? Si sapeva che molte opere del Canova erano state replicate dai suoi bravissimi allievi e assistenti. A mio avviso, risposi, la qualità del marmo era stupefacente, non poteva che essere del Canova e il Louvre aveva dei motivi per non acquistare la Danzatrice: era già in possesso di due capolavori dell'artista uno dei quali, l'Amore e Psiche, era forse la sua opera più ammirata. Dunque consigliai di formalizzare l'acquisto: «Ne è assolutamente sicuro? Può assumersi la responsabilità che l'opera sia autografa?». Allora ero relativamente giovane e prima dei cinquant'anni – e forse ancora dopo, se non si è troppo stupidi o troppo arroganti – si hanno sempre dubbi, soprattutto su se stessi. Chiesi un po' di tempo per dare una risposta definitiva. Le settimane passarono e la statua giunse a Londra dove venne vista per prima da un'amica dei vecchi tempi, intelligente e schietta, Ursula Schlegel, una delle direttrici dei musei di Berlino. Ne fu estasiata ma trattandosi di un acquisto importante per i suoi musei voleva l'opinione diretta di Hugh Honour, giustamente considerato il maggiore esperto dell'artista. Venni dunque convocato a Londra per rivedere la Danzatrice insieme a Honour e alla Schlegel: confesso che non ero del tutto tranquillo poiché la mia attribuzione basata sostanzialmente sull'occhio poteva, come tutte le attribuzioni, essere contestata. Hugh arrivò e si mise a girare con estrema calma attorno al grande marmo senza fare motto. Dopo un quarto d'ora mi dette ragione. Non solo, ma asserì che fra le lettere a Canova conservate a Bassano ce n'era una indirizzatagli da un curioso personaggio, Giuseppe Tambroni, il quale si trovava a Vienna quando il Palazzo Razumovskij prese fuoco l'ultima notte del 1814. Honour aveva portato con sé una trascrizione della lettera che ci lesse e di cui ancora conservo una copia. In quella occasione la Danzatrice venne salvata miracolosamente riportando soltanto la rottura di alcune dita delle mani. Honour fece notare come fosse ancora perfettamente visibile il restauro. La lettera del Tambroni, nel suo ritmo drammatico quasi teatrale, era molto chiara: il Conte Razumovskij era molto occupato per la sua nomina a plenipotenziario al Congresso di Vienna che andava «a vele gonfie. Non potendo veder lui ò veduta ancora la statua, la quale non à sofferta altra mutilazione che nelle dita e cioè l'indice della mano dritta, l'indice, il medio, e il piccolo della sinistra tutti troncati un poco al disopra della prima falange così che à perduto due falangi per dito. Del resto è illesa, ma tutta annerita e insanguinata dalle mani di quelli che la trasportarono. Poco dopo che fu fuori il volto (sic) della stanza crollò».

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