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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 08:19.

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«Non c'è ancora una persona, un animale, un uccello, un pesce, un albero, una pietra, una caverna. Soltanto il cielo, da solo, è lì; la faccia della terra non è limpida. Soltanto il mare da solo è riunito sotto il cielo; non c'è niente, assolutamente niente che sia incorporato. Tutto è in quiete, non vi è una sola cosa che si muova. Tutto è immobile, fermo sotto il cielo ... solo mormorii, increspature, nell'oscurità della notte ... Qualunque cosa possa esistere semplicemente non c'è. Solo la massa d'acqua, solo il mare. Solo gli dei creatori sono nell'acqua, una luce scintillante. Essi sono lì, avvolti in piume di quetzal, nel verde-azzurro». Così il Popol Vuh, il libro sacro dei maya Quiché, l'ultima versione di una serie di antichissimi miti cosmogonici, racconta il momento che precede la creazione del mondo, avvenuta l'11 agosto del 3114 a.C., quando il Conto Lungo, uno dei calendari maya, cominciò a scandire i giorni dell'era presente.
Nessuno allora vide lo scenario del «mare riunito sotto il cielo», ma certamente i Maya dovevano immaginarselo di un verde-blu pervasivo, forse abbagliante, che avvolgeva gli stessi dei.
Si può capire, dunque, perché la giada è il loro materiale più prezioso e perché il verde-blu (nelle lingue maya lo stesso termine: "yax" è utilizzato per indicare i due colori) rappresenta il centro del mondo ed è per antonomasia il simbolo della fertilità. Per questo, a ragione, la Pinacothèque de Paris fa delle maschere in giada, una delle tipologie più note e meno capite della letteratura antropologica, la chiave di lettura della mostra sui Maya che si è aperta il 26 gennaio. Questi pezzi, circa una quindicina, danno inoltre l'occasione per presentare una serie di recenti ricerche, che, da un lato, hanno consentito di ricostruire le tecniche usate per la loro realizzazione e, dall'altro, hanno chiarito che valore avevano nei rituali, quando re e sacerdoti le utilizzavano per personificare il dio evocato e prenderne la natura e i poteri. Messe nelle tombe, come maschere funerarie, esse avevano il potere di trasformare il volto del defunto nel personaggio rappresentato, conservandone più a lungo l'essenza, un'entità simile all'«anima». In quel contesto, esse erano i paraphernalia privilegiati, per via delle loro caratteristiche intrinseche, per rappresentare e mettere in comunicazione i tre livelli del cosmo: il cielo, l'inframondo e il piano terreste quello, sempre verde-blu, del Giovane Dio del Mais, risorto dalla morte.
Ma la mostra non si limita alle maschere in giada e offre anche una variegata e articolata rassegna di quasi tutte le realizzazioni della cultura maya. Infatti, lungo il percorso espositivo si possono ammirare le figurine provenienti dall'isola di Jaina, che sembrano aprire uno squarcio nel quotidiano (in realtà spesso rinviano a temi mitico-religiosi); i vasi, tra cui eccellono le cosiddette tipologie codex; gli ornamenti indossati dai re nei rituali in cui si trasformavano nelle divinità che garantivano la pioggia e la fertilità della terra; gli elementi architettonici (lastre, stele, eccetera), che, come una «foresta di pietra» movimentavano i centri cerimoniali delle città; gli eccentrici, curiose e straordinarie realizzazioni in selce che, nelle loro forme asimmetriche svelano, se si guarda con attenzione, il celebre "profilo maya". Tutte queste tipologie, però, sono sovrastate dalle sculture raffiguranti le divinità più importanti del loro pantheon, tra le quali eccellono le teste in stucco o in giada del "Signore Sole" e del Dio del Mais. Osservandole si è storditi dalla straordinaria capacità dell'arte maya, ma sarebbe più corretto dire degli artisti di alcune botteghe, di adattarsi straordinariamente a materiali e stilemi diversi, senza mai perdere forza espressiva.
In tutto si tratta di circa 150 opere, a cui va aggiunta una ventina di repliche di quei capolavori che il Messico considera patrimonio dell'identità nazionale e ha deciso di non far più uscire, modificando la politica di grande apertura che fino a poco tempo fa caratterizzava la sua gestione del patrimonio. Pertanto gli originali della testa in stucco e della maschera funeraria di Pakal fatte dagli artisti di Palenque verso la fine del VII secolo d.C., sono state sostituite da repliche. Altro segno dei tempi è il fatto che la mostra non è stata pensata e creata dalla Pinacothèque, ma è arrivata "chiavi in mano" direttamente dal Messico. La cosa non è una novità e prima della Pinacothèque anche il Musée du quai Branly con Teotihuacan, e qui ci si limita a citare un caso particolarmente eclatante, si era adeguato a questo nuovo corso. Tuttavia, premesso che è senza dubbio meglio una bella mostra pensata altrove che una brutta mostra fatta in casa, è bene che i musei e le istituzioni europee riprendano presto la capacità progettuale di fare mostre in proprio o, almeno, di adattare al proprio gusto quelle d'importazione. Così, almeno, eviterebbero di presentare come proprie mostre organizzate da altri e già passate per quattro o cinque sedi.
Ma al di là di questi aspetti, non si può ignorare che la mostra evoca quello che ormai si può chiamare il fenomeno 2012. Proprio quest'anno, infatti, nel giorno del solstizio d'inverno, si concluderà il Conto Lungo, il ciclo calendariale cominciato 5125,3661 anni fa nello scenario presentato più sopra. Ora digitando in google: "2012" si hanno oltre 25 miliardi di risultati. Un anno fa erano solo 376 milioni. È la prova del notevole interesse per la cultura maya che "l'evento" ha suscitato.

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