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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 08:19.

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Nel Novecento italiano, in almeno due occasioni la scrittura carceraria è divenuta ben di più che una corrispondenza del prigioniero con i familiari, variamente integrata (censura permettendo) da annotazioni cronachistiche o riflessioni politiche. In almeno due occasioni la scrittura carceraria ha dato luogo a uno psicodramma cifrato, dove la posta in gioco non era soltanto la salvezza fisica del prigioniero: era anche la natura del suo lascito civile. Così, durante la primavera del 1978, nel caso di Aldo Moro rapito dalle Brigate rosse. E così, tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta, nel caso di Antonio Gramsci detenuto dal regime fascista.
In un'edizione delle lettere di Moro curata per Einaudi nel 2008, Miguel Gotor ha dimostrato quanto le lettere da un carcere possano rivelarsi parlanti – nonostante l'evidenza di una censura, e dunque la necessità di un'autocensura – se lette con un massimo di acribia filologica e di sensibilità storiografica. L'acribia filologica è servita a Gotor per decifrare le crittografie di Moro, i messaggi nascosti dal presidente democristiano all'interno delle sue lettere dal «carcere del popolo». La sensibilità storiografica è servita a Gotor sia per ricostruire la gestione delle lettere da parte dei brigatisti (la loro scelta di renderne alcune pubbliche, altre no), sia per illustrare la dipendenza dei destinatari (familiari o politici che fossero) dalla strategia comunicativa di chi deteneva gli originali.
Adesso, un grande esperto di studi gramsciani – Franco Lo Piparo – ha intrapreso un esercizio di analisi filologica e di interpretazione storiografica delle lettere scritte in carcere dal fondatore del Partito comunista d'Italia. E nonostante tutta la distanza che evidentemente separa le due situazioni, la prigionia di Gramsci e la prigionia di Moro, Lo Piparo si è trovato a misurarsi con problemi analoghi a quelli magistralmente affrontati da Gotor. Sul fronte dei testi, il problema di decifrare le crittografie dissimulate dal mittente. Sul fronte dei contesti, il problema di ricostruire la gestione delle lettere da parte dei carcerieri e la loro ricezione da parte dei destinatari.
I risultati del lavoro di Lo Piparo sono compendiati nel titolo e nel sottotitolo di un libro leggero per dimensioni, ma pesante per implicazioni: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista. In sostanza, Lo Piparo decodifica nelle lettere dal carcere di Antonio Gramsci – segnatamente in quelle da lui indirizzate alla cognata, Tatiana Schucht, fra gli ultimi mesi del 1932 e i primi mesi del 1933 – nientemeno che un'abiura del comunismo. E Lo Piparo sostiene che a fronte di tale abiura i dirigenti in esilio del Partito comunista d'Italia, Palmiro Togliatti in testa, esercitarono sulle scritture carcerarie di Gramsci una forma di censura più severa ancora di quella praticata dal regime mussoliniano.
Il comunismo fu l'«altro carcere» di Gramsci? Formulata in questi termini, la tesi di Lo Piparo suona troppo spinta per riuscire persuasiva. Del resto, l'autore stesso riconosce come gravi lacune nel patrimonio documentario non consentano di determinare con esattezza le modalità di appropriazione delle lettere di Gramsci da parte dei loro destinatari diretti o indiretti. Noi non sappiamo che cosa Tatiana ricopiasse e che cosa omettesse nelle trascrizioni delle lettere da lei inoltrate a Piero Sraffa, l'economista emigrato a Cambridge che garantiva i collegamenti con Mosca. Quanto all'ipotesi di Lo Piparo secondo cui Togliatti in persona avrebbe provveduto a far sparire uno dei trenta quaderni vergati in carcere da Gramsci, è una teoria che il migliore conoscitore dei quaderni, Gianni Francioni, dichiara oggi «destituita di ogni fondamento».
Al netto di qualche ipotesi azzardata e di qualche scivolone nel paradosso, il libro di Lo Piparo contiene spunti di notevolissimo interesse. In particolare, offre una lettura folgorante della lettera scritta da Gramsci a Tatiana il 27 febbraio 1933: lettera che Tatiana per prima – riferendone subito a Sraffa – qualificò come «un capolavoro di lingua esopica», e che non a caso Togliatti ebbe cura di escludere, nel 1947, dalla prima edizione delle Lettere dal carcere. Situando la missiva del 27 febbraio nello specifico del suo contesto spazio-temporale (Gramsci la indirizzò a una cognata che aveva incontrato il giorno prima nel parlatorio del carcere di Turi, e che si apprestava a rivedere nei giorni successivi: insomma la scrisse a nuora Tatiana perché suocera Togliatti intendesse...), e decrittando il testo della lettera riga per riga, parola per parola, Lo Piparo illumina di una luce nuova lo sforzo di Gramsci prigioniero per uscire, se non dal carcere fascista, almeno dal labirinto comunista.
Dopo avere seguito la dimostrazione semantica di Lo Piparo, sarà difficile per chiunque ritornare a leggere con (falso?) candore le righe della lettera in cui Gramsci evocava lo «svolto decisivo» della sua vita, la «decisione» ormai «presa» di rimediare all'abbaglio che aveva orientato l'intera sua esistenza, e che Lo Piparo interpreta come la scelta stessa del comunismo: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone». Per giunta, la decifrazione di Lo Piparo suggerisce come, quando Gramsci parlava della moglie Julca, egli si riferiva soprattutto – in cifra – all'universo comunista. Sicché la sua separazione da Julca andava intesa come una separazione dal Partito: come il traumatico rimedio, insieme privato e pubblico, intimo e politico, al «dirizzone» che gli aveva cambiato la vita.

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