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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2012 alle ore 19:51.

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Siamo sceneggiatori, registi, artisti dell'animazione, documentaristi. Autori. In cerca d'autore. Un autore istituzionale pronto a mettere in scena un cambiamento. Del mondo in cui siamo chiamati a operare. Quello della RAI e di tutti i network che utilizzano le nostre opere. Un mondo che ha bisogno di un nuovo copione, di una nuova storia. Di cui vorremmo essere, se non protagonisti, almeno personaggi.

Personaggi significativi. Perché noi siamo quelli che scrivono e realizzano le storie che influenzano così profondamente l'immaginario collettivo degli italiani. Noi che con le nostre idee facciamo girare il volano della grande industria audiovisiva che fattura ogni anno più di 2,2 miliardi di euro. Noi che con i nostri film e le nostre fiction, i nostri documentari e i nostri cartoni animati, forniamo occasione di lavoro a 250 mila persone.
Abbiamo letto giorni fa sul vostro quotidiano che è giunto per la politica il momento di una scelta ineludibile: quella di considerare finalmente la cultura come un settore strategico e trainante della nostra economia. Bene, siamo con voi. O, si potrebbe anche dire, siete con noi, visto che come associazioni di autori avevamo elaborato concetti simili in alcuni nostri documenti che nel 2007 furono alla base di un'affollatissima assemblea di tutto il mondo dell'audiovisivo al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Primo fra tutti, che la cultura è non solo forte elemento identitario del nostro Paese ma anche propulsivo del suo sviluppo economico. La Rai è uno dei luoghi decisivi di questa ipotesi e solo sviluppando al meglio la sua natura di servizio pubblico si può dare impulso a un'industria sana e moderna. Perché il suo obbligo ‘per legge' a innovare, se solo fosse rispettato, costringerebbe anche gli altri network a misurarsi sullo stesso terreno per non perdere quote di mercato e stimolerebbe così un decisivo miglioramento della qualità nell'intero universo della narrazione audiovisiva.

Ma le nostre parole si sono perse nel vento, vanificate non solo dai conflitti d'interesse del berlusconismo ma anche da infiniti altri interessi di parte. E neanche quando è arrivata la crisi è stato possibile confrontarsi con i vertici della Rai, né tantomeno proporre loro che la crisi stessa diventasse l'occasione per cambiare tutti insieme un modello editoriale, creativo e produttivo già da tempo obsoleto. L'unica strategia adottata dalla dirigenza di viale Mazzini è stata invece quella di decidere in solitudine tagli giganteschi alla produzione di fiction, nonostante proprio la fiction sia trainante per ascolti e introiti pubblicitari. Negli ultimi 4 anni la sola Rai ha ridotto di più del 40 per cento i suoi investimenti e ha perso 200 ore di prodotto originale, che diventano 300 considerando anche Mediaset e Sky. Cosicché l'offerta complessiva si è ridotta a meno di 50 titoli all'anno, meno di quanti ne producessimo 15 anni fa, collocandoci agli ultimi posti in Europa distanti di molte lunghezze da Regno Unito, Francia, Germania e Spagna.

E dato che per ogni euro investito in racconto audiovisivo si ha un ‘ritorno' di 2,1 euro, è facile capire quale gravissimo danno venga alle casse dello Stato da questa scelta imprenditoriale. A questo si deve aggiungere il danno derivato dalla delocalizzazione della produzione che negli ultimi 4 anni ha fatto volare all'estero 100 milioni di euro senza alcun ritorno per il nostro paese. A vantaggio di chi la Rai ha scelto una strada così disastrosa per l'azienda e, più in generale, per l'economia italiana? Di dirigenti che garantiscono così alla propria gestione la medaglia al merito di ore di produzione a costi più bassi e di produttori asserviti ai broadcaster perché la loro unica professionalità è quella di essere proni a tutti i loro voleri.

A questo punto proprio noi, troppo spesso accusati di essere irresponsabili e privilegiati, interessati solo ai nostri aumenti di compenso e al nostro particulare, siamo pronti a lanciare loro il guanto di sfida sul terreno dell'economicità degli investimenti, sulla riduzione possibile dei costi, su un diverso utilizzo delle risorse. Perché noi che le storie le ideiamo e le realizziamo sappiamo dove è giusto e possibile tagliare, come è possibile sfruttare al meglio un ambiente da un punto di vista narrativo, quale soluzione garantisce forza emotiva, qualità espressiva e minori spese.

Se qualcuno in Rai avesse accettato il confronto con gli autori sulla linea editoriale della attuale fiction avremmo consigliato ad esempio di dare minor centralità nelle scelte produttive al filone delle biografie filmate tanto in auge, che forse garantiscono da possibili spunti critici sulla realtà politica e sociale dell'Italia voluta da chi ci governa ma non sempre assicurano -per via degli investimenti che si rendono necessari per un film in costume- un buon rapporto qualità-costi. E avremmo suggerito di dare più spazio a storie che parlano del nostro presente e dei nostri problemi, evitando il ricorso a spettacolarità facili, spesso false e costose, prendendoci la responsabilità di rendere il racconto altrettanto emozionante e coinvolgente.

Il dialogo con chi siede ai piani alti di viale Mazzini però è risultato finora impossibile non solo sui grandi temi editoriali e industriali ma persino su elementari battaglie di civiltà come un contratto nazionale di lavoro per registi e sceneggiatori, al punto tale che su questo fronte - anche per la resa ai diktat della Rai da parte dei produttori televisivi-, siamo stati costretti a cercare la via dell'autodeterminazione di alcune elementari regole di lavoro, con un'iniziativa che abbiamo chiamato Turning Point.

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