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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2012 alle ore 08:14.

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«I depone aat I wull be leal and bear aefauld alleadgance tae her majesty…». Dopo secoli di decadenza, libero precipitare dai picchi esplorati nelle liriche di Robert Burns al biascicare di vecchi scozzesi nelle brume delle Lowlands, è meglio (ri) abituarsi allo Scots.
Lingua di Scozia, riscoperta con quel giuramento bislacco dai deputati del Parlamento di Edimburgo nel maggio del 2011, reiterato atto di lessicale affrancamento dal Regno Unito. Fino a diventare prologo, incompreso, alla domanda di referendum per l'indipendenza delle terre a nord del Vallo, maturata in queste settimane. La consultazione si farà, ricordiamo, anche se non si sa ancora quando, né come. I nazionalisti scozzesi di Alex Salmond, capo del Governo autonomo di Edimburgo, la vogliono nell'autunno del 2014, a commemorazione della vittoria nella battaglia di Bannockburn del 1314, storica frattura, in punta di alabarda, da Londra. Il Governo di Westminster accetta il referendum, ma per evitare eccessive ridondanze patriottiche chiede che sia fatto presto e che sia radicale: o dentro o fuori. Alex Salmond, scaltro Braveheart appesantito dalla passione per gli haggis, mette in guardia David Cameron dall'interferire. La dialettica così si scalda, la passione cresce e quell'atto di «leal and bear aefauld alleadgance tae her majesty…» finisce per tremare.
A scuoterlo contribuisce la lingua letteraria, sfilata dal cassetto e messa in campo a Holyrood, il Parlamento scozzese. L'inglese, dominante nel mondo, non poteva non travolgere resistenze considerate pseudo-dialettali e infatti così è stato fino a queste ore di rinascimento nazionale, dove i simboli si recuperano per agitare il Regno tutto, da nord a ovest fino a sud dove pure riecheggiano vagiti indipendentisti mai sopiti. Allo squillo scozzese ha, infatti, risposto il Galles e s'è allertata l'Irlanda del Nord, angolo pericolosissimo, quest'ultimo, quando si sventolano bandiere.
I simboli si sprecano, dicevamo, per corazzare l'indipendentismo nel Regno di Elisabetta II, ma il più potente, la lingua, attendeva solo un segnale per mettersi alla testa della nuova coscienza collettiva. «È arrivato qualche mese fa – dice John Derrick McClure già docente di Scots all'Università di Aberdeen depositario dei misteri lessicali di una lingua persa – quando la Commissione che ho presieduto ha finito i lavori e tracciato il cammino per ridare alla Scozia il trilinguismo assegnatole dalla storia. Scots nelle Lowlands, gaelico nelle Highlands e inglese qua e là». Il meno riconosciuto è proprio lo Scots, nobile lingua d'origine sassone che nel Trecento fu usata da John Barbour, il Geoffrey Chaucer locale, per celebrare le gesta di Robert Bruce, grande re di Scozia. L'adottò poi Robert Burns nel Settecento, battendosi contro il pragmatismo illuminista di David Hume che non ne voleva sentire parlare. L'ha recuperata in questi anni il poeta Hugh Mc Diarmid spalancandone l'uscio al debutto in politica di cui Derrick McClure è ora punta avanzata.
L'operazione è in realtà piuttosto complessa perché, nonostante le istanze indipendentiste siano scoppiettanti come mai prima d'ora nel passato recente, lo Scots, lo conoscono in tanti ma lo parlano in pochi. È più accettato il gaelico. «Certo molti non lo usano più – aggiunge Mc Clure – anche se le nonne lo parlano tutte. I dialetti Scots sono molti, sto traducendo Alice nel Paese delle Meraviglie nella versione adottata nelle propaggini più settentrionali del Paese. Si tratta ora di riportare l'idioma nella forma più comune a scuola, insieme con il gaelico e l'inglese».
Per chiudere una falla aperta dalla storia. Il nazionalismo scozzese e anche quello nord irlandese hanno perduto infatti la dimensione linguistica, mentre il più timido indipendentismo gallese si regge quasi esclusivamente sul larghissimo uso di un idioma parlato tanto a Cardiff quanto nelle valli più inesplorate. Un fenomeno strano che Derrick Mc Clure, spiega così: «L'emigrazione irlandese prodotta dalla grande carestia è la causa principale della decadenza del gaelico in Ulster e a Dublino. In Scozia è successo qualcosa d'altro ma ugualmente tragico. La cacciata dei contadini dalle Highlands e Lowlands per volontà dei possidenti terrieri che volevano allevare bestiame portò, nell'Ottocento, allo svuotamento di grandi aree e a partenze di massa».
La diaspora scozzese e irlandese ha indebolito il lessico autoctono, mentre la clemenza della storia ha risparmiato ai gallesi la fuga nel Nuovo Mondo e oggi è proprio la lingua a puntellare il nazionalismo morbido che si avverte a Cardiff e dintorni. «Non c'è dubbio – ha spiegato di recente John Osmond direttore dell'Institute of Welsh Affairs – che il senso di appartenenza nazionale è avvertito con grande forza prevalentemente in termini linguistici». Tanto da dare un contributo molto significativo al rilancio di voglie ultra-autonomiste e sogni di distacco, tout court, da Londra. Sotto la guida di Leanne Wood il Plaid Cymru, formazione favorevole all'affrancamento pilotato dal Regno, è cresciuto, in termini di iscritti, del 23% in pochi mesi. E tanto è bastato per spingere la signora leader del partito a dire che entro i prossimi dodici mesi vuole «vedere una chiara strada per l'indipendenza del Galles».
Soprattutto se la Scozia procederà come minaccia di fare. Il distacco di Edimburgo darebbe infatti all'Inghilterra un dominio assoluto, in termini di seggi parlamentari, sulle altre realtà nazionali. E tanto è stato sufficiente all'ex leader dell'Ira, Martin Mc Guinness oggi al potere, in co-gestione, a Belfast, per invocare un referendum capace di promuovere l'unificazione di sud e nord dell'isola.