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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2012 alle ore 16:27.

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È la carta bellezzaÈ la carta bellezza

Nel 2006 il titolo di una famosa copertina dell'Economist, composta genialmente con i ritagli dei quotidiani al modo di una lettera anonima, chiedeva Who Killed the Newspaper?, chi ha ucciso i giornali? Facebook, YouTube e Twitter erano appena nati e non era ancora immaginabile che in così poco tempo sarebbero diventati i principali veicoli di informazione per centinaia di milioni di persone.

Eppure, anche senza i social network, nel 2006 il «complesso mediatico-industriale occidentale» sembrava giunto alla fine dei suoi giorni: la diffusione gratuita delle notizie su Internet aveva fatto saltare il modello di business tradizionale, le redazioni avevano cominciato a dimezzarsi, la diffusione a calare. La fine del mondo dell'informazione sembrava vicina e, soprattutto, certa. Un libro di Vittorio Sabadin del 2007 annunciava che l'ultima copia del New York Times sarebbe stata stampata nel 2043.
C'era però qualcosa che non tornava in quell'analisi apocalittica: a fronte dei licenziamenti, della riduzione degli investimenti pubblicitari e del crollo delle vendite, il risultato netto era comunque di una maggiore circolazione di informazione rispetto a prima. Maggiore, non inferiore. Il segnale era chiaro: non stavano morendo i giornali, stava finendo un certo modo di fare i giornali. A voler rubare le parole di Mark Twain, utilizzate per smentire la falsa notizia della sua morte, si può dire che la notizia della morte dei giornali di carta è fortemente esagerata.

Nessuno può negare che l'industria dei media, in particolare dei media cartacei, è in crisi. Ogni giorno chiudono o minacciano di chiudere testate storiche. Le cronache raccontano di esuberi di personale, di prepensionamenti, di tagli e ridimensionamenti molto dolorosi. In Italia ha appena chiuso City, il free press della Rcs, ci sono problemi gravi al Manifesto e in molti altri quotidiani sovvenzionati dallo Stato e no. In America il glorioso Washington Post ha chiuso le sedi di corrispondenza nazionali e internazionali. Molti giornali ormai ragionano strategicamente secondo il principio del «digital first», prima si pensa al digitale, poi alle costose edizioni cartacee. Altri hanno abbandonato del tutto la stampa, si sono trasformati in siti internet o hanno ridotto la periodicità per contenere i costi. Un sito vagamente macabro tiene la contabilità dei giornali americani che hanno fermato le rotative (Newspaper Death Watch). Un blog (Newspaperlayoffs.com) pubblica la mappa città per città dei posti di lavoro giornalistici perduti negli Stati Uniti (sono stati quasi 22mila dal 2009 a oggi). L'Annenberg School dell'Università della Southern California ha pubblicato uno studio secondo il quale tra cinque anni sopravviveranno su carta soltanto quattro giornali nazionali: Wall Street Journal, USA Today, New York Times, Washington Post. Oggi le testate di carta sono circa 1.400.

In Gran Bretagna gli scandali delle segreterie telefoniche ascoltate illegalmente da giornalisti troppo disinvolti hanno ulteriormente colpito la stampa, con conseguenze giudiziarie, arresti e la chiusura di un popolarissimo settimanale tabloid.
Ci sono però forti segnali in controtendenza. Non solo le piccole, grandi e meravigliose storie che dal Sudafrica alla Libia a Milano raccontiamo in questo numero di IL. Dalla Gran Bretagna, per esempio, arriva la notizia che Rupert Murdoch ha lanciato un nuovo settimanale popolare, l'edizione domenicale del Sun. Murdoch fa parte di un gruppo di multimilionari globali che continua a investire sulla carta, nonostante tutti dicano che la carta sia morta. Li abbiamo definiti «The Believers», quelli che ci credono ancora.

Ci sono anche in Italia, i believers: Diego Della Valle e Giuseppe Rotelli ci credono così tanto da essere pronti a investire ancora altri soldi per aumentare il peso dentro il Corriere della Sera cartaceo. In Inghilterra c'è il successo dell'Economist, ormai giunto a un milione e mezzo di lettori. «Abbiamo impiegato 160 anni per raggiungere il milione di copie – ha detto il Ceo dell'Economist Andrew Rashbass – ma solo sette anni per arrivare a un milione e mezzo». In Gran Bretagna c'è anche il caso dello Spectator, storica rivista conservatrice. Il suo direttore, Fraser Nelson, dice che grazie a Twitter e agli altri social network lo Spectator ha raggiunto nuove generazioni di lettori. Il risultato è la più grande crescita di copie cartacee vendute degli ultimi decenni. In Francia c'è l'imprevisto successo di Libération. L'informazione su carta va fortissimo in un'economia in crescita come il Brasile e in un Paese popoloso e con molte lingue come l'India. In entrambi i Paesi i dati di diffusione e di raccolta pubblicitaria sono incredibilmente positivi. La crescita in Brasile è a doppia cifra. In India, dove si vendono più giornali che negli Stati Uniti, da qui al 2014 è previsto un ulteriore aumento delle vendite del 18 per cento.

Secondo la World Association of Newspapers and News Publishers, nel 2010 la diffusione dei giornali di carta nell'area Asia e Pacifico è aumentata del 7 per cento rispetto al 2009 e del 16 per cento negli ultimi cinque anni. In America Latina le vendite sono cresciute del 2 per cento nel 2010 e del 4,5 per cento negli ultimi cinque anni. Il rallentamento europeo e nordamericano c'è, ma non ha fermato l'aumento del numero delle testate pubblicate nel mondo: nel 2010 erano 14.853, duecento in più rispetto all'anno precedente. Poi forse c'è il dato più clamoroso: si parla tanto di Internet, ma ogni giorno i giornali di carta raggiungono due miliardi e trecento milioni di persone, ovvero il venti per cento in più rispetto al numero degli utenti totali della Rete (1,9 miliardi).

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