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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2012 alle ore 08:14.

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«Ma dunque, non poteva crederci, dunque aveva paura: seduto su quella specie di bugliolo, in un angolo, supplicando che la porta non si riaprisse proprio in quel momento, peggio che paura: aveva vergogna». L'aspetto forse più interessante del nuovo romanzo di Cesare De Marchi L'uomo con il sole in tasca (Feltrinelli, pagg. 190, € 17,00), un'allarmante favola politica, non sta tanto nel violento interrogatorio a cui un manipolo di brigatisti sottopone il presidente del Consiglio segregato. Sta piuttosto negli istanti, descritti con efficacia, in cui ci viene mostrato l'uomo politico solo, denudato. Il prigioniero non è mai evocato per nome, ma lo si riconosce più che facilmente, a cominciare da «quel sorriso»: «La bocca allargata da un orecchio all'altro in una affabilità esagerata e grossolana», riverbero del sole che sente di avere in tasca, il sole dell'avvenire. «Contrasti, insidie, attacchi subdoli non riuscivano a portarglielo via», o almeno così crede, deve credere; ed è questa convinzione, per ogni politico, la forza e insieme la rovina. Il romanzo di De Marchi, il suo impianto fantapolitico sono fondati senza dubbio su un forte disagio nei confronti del protagonista. Ma siamo sicuri che ci sia solo questo? Quella forza di vita che il presidente incredibilmente mostra ai suoi rapitori, non affascina un po' anche il romanziere? C'è un episodio in cui il capo dei brigatisti viene assalito da un senso di profonda umiliazione, e a umiliarlo è il sorriso del prigioniero: «E adesso vi si aggiungeva l'umiliazione di subire il sorriso esoso di quell'uomo e di provare invidia per lui, senza volere, contro il proprio volere, invidia, certo non della posizione di potere di cui ormai era privo, ma della sua immersione piena nella vita, di quel possesso completo, sazio, osceno che ne aveva, e che a lui era e sarebbe stato, se anche fosse tornato a vivere un'altra e un'altra volta ancora, sempre precluso».
La drammaturga francese Yasmina Reza, in L'alba la sera o la notte (Bompiani 2007), ha provato ad accostarsi a Nicolas Sarkozy come avrebbe fatto Sallustio con Catilina: muovendo da un pregiudizio più che negativo. Sarkozy aveva accettato che Reza lo seguisse nella campagna elettorale per le presidenziali: «È "onorato" che io voglia fare il suo ritratto». Lei appunta anche microscopici dettagli: l'impazienza, la foga nel mangiare, la leggera zoppia. «Quello che mi interessa è osservare un uomo in competizione con la fuga del tempo. Nicolas (l'ho nominato!) sembra contento e grato di sentirmelo dire così». Un uomo politico teme il silenzio, la notte, le lacrime. «Diverse volte gli ho sentito dire: quando avrò chiuso con l'ambizione». Accade l'imprevisto: Reza si accorge che la propria stessa «circospetta severità» vacilla davanti a un tale dispiego di seduzione. Ma cosa c'è dietro? E che fine fa la vita privata? Esiste ancora? «A cosa pensa, lui che non smette mai di agitare la vita?». È un'insufficienza di senso della realtà che spiega il desiderio di potere e di gloria? Esiste davvero nella vita umana «un luogo che si chiami in cima?». E oltre, cosa c'è? «Gli dico: il presente non ti interessa mai, tu vivi in un continuo divenire. Riflette. Concorda». Dietro questo volere indomabile che diventa cieco, cosa si nasconde? Tirato via il velo di «elezioni, riunioni, congressi», cosa resta?
«A Sparta era atletico, frugale, serio; in Ionia era molle, gaudente, pigro; in Tracia si ubriacava e andava a cavallo»: Plutarco, raccontando Alcibiade, deve essersi molto divertito con gli aggettivi. Voleva spingere chi giudicasse il noto politico ateniese, per un abbaglio, valoroso come Achille, a considerare «i suoi veri sentimenti e le sue vere azioni» e di lì a concludere: «È la donnaccia di prima».
Ritrarre un uomo politico, i suoi «veri sentimenti» e le sue «vere azioni» è per qualunque scrittore una sfida affascinante: la materia è così mobile, vasta, contraddittoria, ferocemente umana. E tuttavia, se in letterature e tempi più remoti le vite degli uomini illustri erano un genere solido e fecondo, a metà tra storiografia e narrativa; se la necessità di compromettersi con un passato politico più o meno prossimo o con l'attualità, anziché scoraggiare gli autori, li incentivava, oggi il confronto romanzesco – soprattutto in Italia – con gli uomini politici sembra appaltato al giornalismo da una parte e al cinema dall'altra. Il grande racconto su Berlusconi è più nelle cronache di D'Avanzo o Stella che sugli scaffali letterari; e in effetti perfino sul grande schermo prevalgono la fantapolitica (Ho ammazzato Berlusconi di Rossi e Giometto), il meta-cinema (Il Caimano di Moretti) e il filone grottesco-visionario (Il Divo di Sorrentino, su Andreotti). Un esperimento come quello di Roberto Faenza, Silvio Forever, non aggiunge granché.
Altrove, esempi recenti come The Iron Lady di Phyllida Lloyd o J. Edgar di Clint Eastwood, e prima The Queen o Nixon, hanno mostrato tutto il fascino di un'indagine sull'uomo di potere che scavi nelle pieghe esistenziali, intime.
Da cosa può derivare il disagio di molti autori contemporanei verso il "ritratto" dell'uomo politico? Dalla prepotenza delle cronache giornalistiche, che sembrano mangiare ogni spazio residuo di immaginazione e scoperta? Da retaggi dell'antipolitica, dalla sensazione di scarsa vitalità, di scarso "eroismo" dei politici odierni? Ma non sono forse proprio il cinismo, l'ambiguità, l'ambizione fine a se stessa che più ci attraggono in una parabola politica? Vi è il timore che un racconto troppo legato a un nome e cognome risulti deperibile? Ma «è il punto di vista trascendente a tramutare una Cianghella Della Tosa nella Cianghella tout court, un piccolo personaggio storico a elemento della grande storia dell'uomo», in grado di «preservare nel tempo il significato fondamentale racchiuso in un singolo nome di persona». Così scrive Marco Santagata nel recente L'io e il mondo. Un'interpretazione di Dante, paragonando la Commedia a un instant book, spesso basato su «quello che oggi chiameremmo gossip politico e di costume». Come a dire che la "durata" non è nelle cose, ma nel nostro modo di intenderle, di narrarle, di proiettarle su orizzonti più ampi.

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