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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 18:24.

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Non mi piace parlare delle persone a ridosso della loro morte. Mi sono trincerato dietro un black out telefonico ed elettronico per non rispondere alle richieste di commenti su Sellerio. Ma con senso di colpa. Enzo Sellerio ha avuto un ruolo importante nei miei inizi di fotografo. Avevo poco più di diciotto anni, avevo cominciato da poco a fare fotografie con una certa ambizione.

Un amico professore all'università, mi disse che dovevo assolutamente incontrare Sellerio. Mi presentò. L'incontro mi impressionò molto. Non è che sapessi molto del fotografo, ma le poche sue fotografie che avevo visto su Il mondo o su Sicilia, una elegante rivista che Bruno Caruso faceva, avendo come modello Verve, di Teriade, mi sembrarono proprio il tipo di fotografie che avrei voluto fare. Frequentavo da poco Palermo e con diffidenza, da provinciale di famiglia contadina, pieno di giustificati complessi di inferiorità per la mia enciclopedica ignoranza.

Mi impressionò l'uomo, alto, bellissimo, racè, con una gran capigliatura ondulata. Ma più ancora mi impressionò la casa, letteralmente straripante di pitture su vetro siciliane, giocattoli antichi, mobili, ceramiche, libri, riviste. La casa di un borghese colto, ironico, di gran gusto, geniale. Un mondo e un tipo umano che incrociavo per la prima volta. Mi accolse con brusca gentilezza. Da allora, per poco più di un anno, forse ogni paio di mesi, gli portai da vedere le mie fotografie. Lui faceva commenti laconici, spesso duri, sempre pertinenti e intelligenti. Dopo ogni incontro avevo l'impressione di fare un salto di qualità importante, di entrare in contatto con una grande tradizione culturale che inseguivo più per istinto che per conoscenza.

Avevo cominciato a fotografare sistematicamente le feste popolari siciliane. Una volta, di ritorno dalla processione del venerdì santo a Enna, gli portai le ultime fotografie. Lui le sfogliò rapidamente, come al solito, ma poi ne tirò fuori due e chiamò Elvira, la moglie, donna bellissima che incrociavo per la prima volta. Guarda, le disse, il ragazzino ha fatto due foto graziose. Avvampai di orgoglio. Subito dopo, però, nel salutarmi, mi disse che non era più il caso che gli portassi da vedere le mie foto. Ero frastornato; non capii se si trattava di un complimento o di un brusco congedo. Forse tutti e due.

Due anni dopo pubblicai il mio primo libro con Leonardo Sciascia e quello fu il passaporto con il quale osai andarmene da Bagheria e correre la mia avventura professionale. Da allora, comunque, non ho mai mancato di rendere a Sellerio il mio debito di gratitudine.

Fu soltanto anni dopo che scoprii che da molto tempo Sellerio mi detestava. E che in più mi detestava in maniera appassionata, direi barocca. Mi riferirono una lunga serie di aneddoti, che erano spesso comici, se non grotteschi. Quasi una guerra. Non ho mai saputo la ragione vera di tanto rancore. Considerava Sellerio che io gli avessi mancato gravemente di rispetto una volta che essendomi recato in casa editrice, che cominciava la sua storia, per incontrare Sciascia, non mi fossi prima fermato nel suo ufficio per rendergli omaggio, ma, dopo averlo frettolosamente salutato, mi ero diretto subito a incontrare Leonardo. Non ho nessun ricordo dell'episodio. Ma la ragione addotta non mi ha mai persuaso. Perché questa intolleranza di Sellerio nei confronti di certe persone, molte, soprattutto se in un modo o in un altro avevano a che fare con il mondo della fotografia e specialmente se siciliane, non riguardava soltanto me. Me ne voleva persino per avere detto che lui é stato il più limpido ponte tra la cultura bressoniana e la fotografia italiana. Non voleva essere considerato ponte, pretendeva di essere isola.

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