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Questo articolo è stato pubblicato il 01 aprile 2012 alle ore 18:24.

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Negli ultimi anni, tuttavia, accanto alla deprecazione delle mie pessime qualità umane, ammetteva apprezzamento per il mio lavoro di fotografo.
No, le ragioni credo che siano molto più sicilianamente complicate. Forse ci vorrebbe uno psicanalista, io non lo sono. Ma sono siciliano e non mi sentirei di escludere che certe nevrosi albergano, sia pure in maniera meno patologica, nelle zone oscure del cuore di molti siciliani. La mia ipotesi è che le sue spesso esacerbate idiosincrasie abbiano a che fare con la maniera in cui lui ha praticato e vissuto il suo fare fotografie.

In quel suo libro magnifico Fotografo in Sicilia, Enzo Sellerio ha scritto una prefazione illuminante che secondo me spiega tutto. «La mia fotografia sarebbe rimasta giustamente un semplice documento, anche se qui ci sarebbe da discutere: in campo fotografico i confini tra l'invenzione e la documentazione sono molto labili … Il fotografo non "cerca, trova" come disse un giorno qualcuno. La cosa mi riguarda particolarmente perché sono un collezionista. Ho frequentato per anni le botteghe di rigattieri, specialmente a Palermo, e potrei dire che la fotografia è stata una estensione della mia ricerca». Ecco, io credo che Sellerio non si sia mai considerato "un fotografo". Il suo fotografare era un'estensione della sua passione collezionistica, esercitata non su oggetti del presente, ma dai rigattieri, là dove è possibile esercitare il tuo gusto, la tua sensibilità, la tua cultura per discernere tra le cianfrusaglie e salvare frammenti significativi del vivere umano. «Questo libro, quello sulle fotografie siciliane, scrive, è una collezione di trouvailles riunite per accumulazione spontanea. Un riflesso della mia vita, o almeno della sua parte migliore».

Quando il mondo, che per lui, come flaneur con una macchina fotografica, è stato praticamente quasi esclusivamente Palermo e la Sicilia, ha smesso, almeno per lui, di assomigliare al fascinoso universo dei rigattieri che ha frequentato quotidianamente per decenni, Sellerio ha orgogliosamente smesso di fotografare. Quando gli è stata offerta la formidabile opportunità, con un contratto per Vogue americana, di trasformare il gioco in mestiere, dopo pochi mesi a New York, rinunciò e rientrò a Palermo.
Nei confronti del presente, della violenza siciliana, come dell'involgarimento incolto del mondo che anche in Sicilia allungava la sua ombra ignobile, Sellerio concepì un rifiuto e un disprezzo, sia pure con un finto velo di ironia, che inglobava anche e soprattutto quelli che il fotografo in questo spregevole contesto lo facevano per mestiere. Insomma, non si poteva essere fotografi se non "per diletto", altrimenti si era ciechi, o complici. Il titolo di Gesualdo Bufalino Tommaso o il fotografo cieco gli sembrava l'Estrema Unzione per la fotografia. «Troppo fotografi girano per il mondo, ciechi no, ma neppure vedenti».

Ecco, mi sembra questa la radice, da scandagliare meglio, si capisce, del rancore esistenziale e fotografico di Sellerio. Ed è anche, io credo, la radice della sua importanza come fotografo. Pochi sono i fotografi che limitando sostanzialmente il loro raggio d'azione esclusivamente all'interno del proprio più autentico nucleo geografico, esistenziale ed estetico, e per un tempo tutto sommato breve, hanno realizzato un'opera nella quale così numerose sono le immagini indimenticabili.

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