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Questo articolo è stato pubblicato il 08 aprile 2012 alle ore 08:15.

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Tanto tuonò che finalmente piovve. Arriva a Milano Derek Walcott e questa volta è per ricevere il Premio Choice-Montale: «Sono onoratissimo» mi dice subito. «Ho ricevuto altri premi, ma questo è speciale. Perché è "il Montale" e perché è a Milano. Dove sono stato tante volte e dove ho insegnato. Dove ho tanti amici». La cerimonia, fissata per lo scorso autunno ha subìto una serie di rinvii. Per mille motivi sembrava impossibile trovare una data, ma grazie al coraggio e alla pertinacia di Angelo Starinieri, che questo premio ha fatto rinascere, si è riusciti a far quadrare il cerchio e la premiazione avrà luogo nell'Aula Magna della Statale il 12 aprile.
«È davvero una cosa toccante. Vi sono molto grato», riprende Walcott. A Milano verrà con Sigrid, la sua compagna, e con le figlie, Lizzie e Anna. Dall'Inghilterra – dalla Università di Essex – arriverà il poeta Glyn Maxwell, che è stato suo allievo alla Boston University e che sta curando la nuova edizione dei suoi Collected Poems, insieme a Cristina Fumagalli nel cui dipartimento Walcott metterà in scena Pantomime nel prossimo mese di maggio. Torniamo a parlare di Montale e di Milano, e questa volta Walcott inaspettatamente si astiene da una vecchia gag, che però – ne sono sicuro – riprenderemo non appena i suoi ex-studenti cominceranno a riempire l'atrio del solito albergo: «Sai perché sono contento di tornare a Milano?» «Perché?» «Perché qui, diversamente da Venezia o Firenze, o New York, uno è libero di sentire la mancanza di tutto!» Mio compito sarà ripetergli che è una battuta che non fa ridere. Ma rideremo lo stesso.
Vado con la memoria alla prima intervista, a Boston. Ricordo che anche quella volta c'erano le figlie. Erano in visita. Non le potevo vedere perché stavano in cucina, ma si sentivano le loro risate e il profumo di caffè. Ricordo anche la mia prima domanda. Da un paio d'anni, insieme a quelli che sarebbero diventati "i suoi studenti" a Milano, commentavamo in un seminario semiprivato e fuori da ogni curriculum quell'«autoritratto di artista da giovane» che è Another Life (1973). Mi ero imbattuto per caso nel volume dei Collected Poems, 1948-1984, e avevo pensato di farlo leggere agli studenti. Per due buone ragioni. Perché, essendo un artista di prima grandezza, Walcott poteva stimolare qualsiasi confronto, e perché era sconosciuto in Italia. Nessun suggerimento – internet ancora non esisteva – poteva venire da nessuna parte e saremmo stati al riparo da qualsiasi frase fatta o giudizio precostituito. Ciascuno di noi si sarebbe trovato da solo davanti alla fatale domanda: «Che cosa si può dire di questo verso? E di questa strofa?».
Le risposte furono ovviamente millanta, per un intero anno. E mentre gli studenti più avveduti via via scoprivano che un grande poeta è anche una gazza ladra e che il suo nido è sempre pieno di "prestiti", fu subito altrettanto chiaro che le parole di Walcott smentivano gran parte delle nostre aspettative e delle nostre convinzioni sui poeti e sulla poesia. Cosicché quando ebbi occasione di andare a intervistarlo furono i ragazzi della Statale a formulare per me il primo quesito: «Mr. Walcott, la sua è un'opera che ha fatto propria la grande lezione del modernismo. Ma il lettore europeo rimane colpito dall'assenza di quel pessimismo intellettuale e di quel cinismo di fondo che sembrano inevitabili in tanti scrittori del ventesimo secolo».
Una considerazione che ripropongo oggi – un quarto di secolo dopo – e la risposta di Walcott è quasi la stessa, parola per parola. Ed è in sostanza la stessa che delinea nella sua prima raccolta, 25 Poems, pubblicata nel 1948, a soli 18 anni, in cui la ragione della speranza è riposta nella presenza fisica della natura piuttosto che nelle iniziative e nelle istituzioni degli uomini, comprese quelle di carattere religioso. «È difficile svegliarsi davanti al fulgore di una mattina caraibica e mettersi a ripensare agli orrori della storia – guerre, pregiudizi, gulag, stermini – come potrebbe fare e ha fatto più di un poeta europeo. Si potrebbe dire che la poesia europea ha come sua metafora centrale il tramonto; quella caraibica, il crepuscolo dell'alba. Da una parte c'è un'enfasi sulla ripetizione della storia; dall'altra su di un continuo inizio».
Walcott è un pittore, nonché un poeta e proprio in esergo a Another Life (1973) ha posto una citazione tratta da La psychologie de l'art in cui André Malraux confuta la leggenda, tramandata dal Vasari, secondo la quale Cimabue sarebbe stato colto da un moto di ammirazione vedendo il pastorello Giotto che disegnava una pecora. Per Malraux, non poteva essere l'oggetto dipinto – la pecora – a instillare in Giotto il desiderio di creare, cioè di ritrarlo; bensì, al contrario, il dipinto di quell'oggetto.
E questo perché ciò che stimola in un giovane la vocazione dell'artista è il fatto che in un dato momento gli capita di vedere un'opera d'arte che lo avvince – nel caso di Giotto, probabilmente una tavola di Cimabue – e non certo l'oggetto che questa rappresenta.
La domanda è: «Come si concilia questa affermazione con il fatto che, come Naipaul ha sempre sostenuto – prendendo l'idea da Anthony Trollope –, nelle Indie occidentali britanniche non è mai stato creato nulla?» Come si esce da una simile impasse arrivando a scrivere Omeros? La risposta è precisa ma ho l'impressione che, al di là della sua profonda identificazione con i Caraibi, a Walcott interessi meno essere il primo di una nuova letteratura che non l'ultimo grande di una grande tradizione: «Sarebbe forse meglio dire che a causa della loro indifferenza sono i britannici a non avere creato nulla nelle West Indies, e di avere lasciato in eredità un danno psicologico che è difficile da riparare».