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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2012 alle ore 18:47.

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Una sera a cena in un ristorante milanese ho detto a Mario Bellini (1) che avrei voluto dedicare una copertina di IL al design, l'eccellenza italiana per antonomasia, un modo come un altro per celebrare quel magnifico circo hipster che sono il Salone del mobile e i suoi mille corollari. Davanti avevo uno dei giganti della nostra scuola di design, l'ultimo esponente di quella straordinaria schiera di creatori di oggetti che negli anni Sessanta ha conquistato il mondo apparentemente con divani, lampade, sedie e tavoli, ma in realtà con una cosa sola: lo stile.

Bellini ha frenato subito il mio entusiasmo amatoriale: «Guarda che "la scuola italiana di design" non c'è più da parecchio tempo». Nel breve intervallo tra l'antipasto e la pietanza, Bellini ha ribaltato le mie poche e banali certezze sul mito della creatività italiana alla conquista del mondo, ma facendolo ha aperto un mondo molto più interessante da raccontare in una cover story.

Attenzione, però a non equivocare. Bellini non è uno di quei venerati maestri capace solo di guardare con nostalgia al passato, ai bei tempi che furono, all'epoca dorata della sua giovinezza. Tutt'altro. Il suo ragionamento è proiettato in avanti e, al contrario, sottolinea la grande vitalità del nostro sistema paese.

I grandi designer sono solo occasionalmente italiani, mi ha ribadito Bellini. Ma questo non è affatto un male. Anzi. Intanto perché quello che era l'intero sistema del design italiano è comunque diventato il perno del nuovo mondo del design globale. Basta dare un'occhiata alle linee minimaliste del tavolo con cui nel 1962 Bellini, ventisettenne, ha vinto il primo Compasso d'Oro per capire quanto feconda continui a essere quella irripetibile stagione.

Punto numero uno: la fine della scuola italiana di design non ci ha fatto perdere il vantaggio strategico nello stile, argomenta Bellini, perché abbiamo un solido sistema di impresari capaci di attrarre i più talentuosi designer del mondo. Non è una cosa da poco. Senza le aziende italiane non ci sarebbero molti dei celebrati designer di oggi. Le cose di design fioriscono in Italia, solo in Italia le sanno sviluppare, fare, comunicare.
Gli imprenditori italiani, dice Bellini, sono come gli impresari teatrali di una volta: sempre alla ricerca dei migliori talenti su piazza. Ne hanno bisogno per tenere a bada la concorrenza, per diventare più grandi se si è medi, per emergere se non si è conosciuti. I migliori progettisti che ogni anno escono dalle migliaia di scuole di design di tutto il mondo sono subito appetibili dalle aziende italiane, costrette a mantenere e a migliorare le loro scuderie di campioni. L'impresario intelligente, dice Bellini, prende sia quelli che propongono oggetti invendibili, bizzarri, ma pieni di idee e che magari faranno discutere, sia quelli che progettano prodotti mainstream pronti a diventare un successo di mercato. Con i primi fanno immagine, con gli altri anche fatturato.

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