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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2012 alle ore 18:47.

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Le critiche alla proposta di riforma del mercato del lavoro sono una buona notizia. Dopo anni di inoperosità legislativa in cui si discuteva solo, e inutilmente, di quello che succedeva in altri palazzi, quelli giudiziari e quelli residenziali, ci stiamo finalmente abituando a dibattere della sostanza e dei contenuti dei provvedimenti di Palazzo Chigi. La proposta Fornero-Monti contiene un'utilissima lezione di riformismo perché indica tre principi fondamentali dell'azione di un Governo, appunto, riformista: coraggio delle scelte, decisionismo e sguardo rivolto al futuro.

Un Governo riformista non può che essere un governo coraggioso. Mettendo in discussione l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, il Governo Monti ha sgombrato il campo dai tabù ideologici. Non ci sono più argomenti innominabili o temi intoccabili. Si può parlare di tutto e, quindi, si può cercare di riformare e di migliorare tutto.

L'Italia negli ultimi vent'anni è stata troppo lenta ad adattare le proprie istituzioni a una realtà e in particolare a un'economia che mutava rapidamente. La disciplina del licenziamento individuale stabilita dall'articolo 18 è solo uno dei tanti esempi di legislazione che, se appropriata 42 anni fa (se ne può discutere), oggi appare obsoleta e va cambiata urgentemente. La verità, però, è che andava cambiata molto prima.

Paradossalmente, la mancanza di coraggio dei governi precedenti (poco riformisti e molto populisti) ci costa più posti di lavoro della possibile riduzione dei costi di licenziamento di cui oggi si discute: basti pensare a tutte le imprese straniere che non hanno scelto l'Italia per produrre, e a tutte le imprese italiane che hanno outsourced verso l'Europa dell'Est alla ricerca di una disciplina del rapporto di lavoro meno rigida della nostra.

Un Governo riformista è anche un Governo decisionista. Da oggi in poi, in tema di riforme economiche alle parti sociali non è più permesso mettere veti inderogabili e imporre trattative estenuanti. Il Governo ascolta tutti, ma decide da solo. E la parola finale ovviamente spetta al Parlamento, dicono Monti e Fornero. Il sottotesto di questo nuovo modus operandi del Governo è che il sindacato di oggi ha perso quel ruolo cruciale di rappresentanza universale dei lavoratori che aveva quarant'anni fa. Se escludiamo i pensionati (quasi la metà degli iscritti), il tipico iscritto ai sindacati è cinquantenne, maschio, e lavora nella Pubblica Amministrazione o nelle grandi imprese del manufatturiero, in qual caso ha un contratto a tempo indeterminato protetto dall'articolo 18 (coincidenza). Giovani, donne impiegate part-time, precari, disoccupati, e lavoratori dei servizi privati sono una sparuta minoranza tra gli iscritti. A che titolo il sindacato oggi può mettere veti in nome di tutti i lavoratori? Meglio che sia il Parlamento a farlo, dicono Fornero e Monti.

Il terzo principio, infine. Un Governo riformista guarda al futuro. La spaccatura del nostro mercato del lavoro ha origine, involontaria, nelle leggi Treu (1997) e Biagi (2003) che aumentarono la flessibilità in entrata introducendo contratti a tempo determinato, senza però intaccare i diritti acquisiti dei lavoratori a tempo indeterminato. Poiché questa flessibilità «al margine» è solo rilevante per i giovani in entrata nel mercato del lavoro, la frattura tra protetti (insider) e precari (outsider) ha una dimensione intergenerazionale.

Le opportunità di carriera e di avanzamento professionale dei giovani, oggi, sono strozzate dai privilegi dei loro padri. I padri, è vero, non sono egoisti, mantengono i figli, pagano loro il mutuo e le vacanze. Questo modello in cui il posto fisso è di proprietà dei padri che poi distribuiscono parte delle proprie rendite di posizione ai figli è chiamato dagli economisti «welfare familiare».

La riforma Fornero-Monti, con tutte le sue imperfezioni (in primis l'esclusione del settore pubblico), è un netto cambio di direzione rispetto a questo disastroso modello sociale, perché restituisce ai giovani più controllo sulla vita e sulla carriera lavorativa. Riducendo i costi di licenziamento e migliorando gli ammortizzatori sociali, si cambia: nessun lavoratore, né giovane né anziano, ha il diritto di proprietà su un posto di lavoro.

L'unica proprietà del lavoratore è il proprio capitale umano che va fatto fruttare, accresciuto e aggiornato attraverso diverse esperienze lavorative. Si potrà essere licenziati più facilmente, ma la disoccupazione non sarà più un dramma – come lo è oggi – se sarà di breve durata (le imprese creano più posti lavoro se licenziare costa meno) e se sarà accompagnata da compensazioni adeguate durante il periodo di transizione da un lavoro a un altro.

Sarà un mercato del lavoro dove i giovani capaci, studiosi e ambiziosi, potranno far sbocciare il proprio talento, senza il pericolo di vedersi tarpare le ali da qualcuno con meno voglia e meno capacità ma con più diritti.

«Nessun pasto è gratis per tutti» dicono gli economisti. In ogni riforma c'è chi vince e c'è chi perde e c'è sempre un forte elemento di redistribuzione. In questo caso la redistribuzione sarà tra diverse generazioni: ci perderanno i padri e ci guadagneranno i figli.
Era ora.

(*) Professore di Economia, New York University

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