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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2012 alle ore 11:10.

Adesso, in quest'altra città, con 80mila appartamenti vuoti e un milione di metri quadrati d'uffici inutilizzati, l'impressione è di un neurotico tentativo di ripartenza, con vaghe tracce d'ottimismo, stravaganti intuizioni di business, una generosità dei volumi che implora fiducia: si sta rifacendo la città. Uno choc, inutile negarlo. Ma indispensabile. Tocca rischiare. E allora la rivoluzione scende dall'alto, come un'astronave le cui intenzioni non sono chiare, ma la cui natura aliena è flagrante.

Visti dal taxi, i cartelloni tra un cantiere e l'altro annunciano aree verdi, piazze, ponti, collegamenti facili. Ed è stupido arrabbiarsi coi grattacieli. Adesso che è primavera, la sera si può mangiare a Chinatown e poi passeggiare tra gli scheletri muscolari delle torri sorgenti, coi lavori alla luce delle fotoelettriche e i fotografi appollaiati a immortalarne gli avanzamenti.
S'imbocca il tunnel tra viale Sturzo e viale della Liberazione e si riemerge in una città nella città, che connette tre maxiquartieri-cantieri: Garibaldi, Isola e Varesine, la nuova piazza/altare progettata da César Pelli, il Bosco Verticale, già landmark dell'area in trasformazione. Poco più in là, dove sorgeva la vecchia Fiera è lo stesso: un alveare di fantascienza, dal fatalistico nome new age (Citylife) e firme architettoniche da urlo (Hadid, Isozaki, Libeskind).
Tutto viene su insieme, come nei progetti utopici dell'Ottocento come nella Celebration della Disney. E le archistar, cosa portano? Azzardi più o meno riusciti, certo non anima locale. Edifici più o meno "belli", comunque avulsi dalla città là sotto. Eppure il tentativo va consumato, per riavviare le dinamiche e non prolungare le nostalgie. Questa è una città che ha rinunciato al disegno dei suoi intellettuali. Ma c'è una sfida in corso. E avviato il procedimento, le cose potranno solo migliorare – si spera.

Bisogna immaginare tutto ciò tra 50 anni, nella Milano del 2062, quando gli interstizi si saranno riempiti e le storie avranno fatto il loro corso nelle strade dove ora regna la polvere. Chi si guarderà indietro, tra quei giganti di luci che si saranno moltiplicati e connessi, dove si collocherà l'Origine, il momento in cui artificiosamente, senza tener conto della volontà popolare, s'è rifatta Milano, riscrivendo la metropoli che aveva perduto le motivazioni? Sarà stato violento, ma questo inizio darà frutti, ben diversamente che in quelle città che galleggiano a stento nella loro contemporaneità. Può darsi che il visitatore a bordo del suo taxi nel 2062 traverserà una babele frastornante e verticale.
Oppure questa downtown Milano resterà desertica e rifiutata, di giorno popolata da ansiosi lavoratori di passaggio e di notte terra di homeless e pericoli, come la downtown di L.A. di cui nessuno ha mai sentito il bisogno.
Però Milano avrà ristabilito la sua appartenenza al presente. Non arretrerà a città di resistenza, ma sarà una scommessa su ciò che possiamo diventare. E nel gelo di quelle torri invecchiate, rispunterà un'appartenenza: il "fare", che è ispirazione di questo posto. Che avrà generato una seconda vita. Roba da americani. Ma questa che vedo dal vetro del mio taxi, è l'America d'Italia – potete giurarci.

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