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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2012 alle ore 11:10.

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La città della moda, della Scala e del design. Soprattutto del design. Nelle università di tutto il mondo ogni corso di progettazione degno di tale nome parte dal made in Italy e Milano resta la meta più ambita per tutti quegli studenti che vogliono confrontarsi con la grande tradizione del disegno industriale. Perché tutto è cominciato qui.

È il caso di José Luis González Cabrero, giovane designer messicano che si è trasferito sei anni fa per studiare al Politecnico. Non se n'è più andato. Ora José lavora come consulente e scrive per diversi magazine messicani di settore. «Se tornassi in Messico mi si aprirebbero moltissime porte, ma io voglio stare qua». Come accade nel caso di tanti suoi colleghi under 35, le entrate non sono proporzionate alla passione che ci mette, né al talento: i soldi bastano per vivere, non per avere una stabilità. Ma spiega che va bene così: «È una parte della scelta».

Talvolta capita anche l'opposto, ovvero che un affermato studio estero ingaggi un giovane laureato italiano. Valerio Sommella, oggi trentaduenne, vanta un'esperienza all'estero con Marcel Wanders, star olandese della progettazione. Un'esperienza fantastica, «ma non c'è carriera se lavori con un maestro», spiega Valerio. Tornato da Amsterdam si è messo in proprio. Nel mondo del design, è una sorta di regola non scritta: giunto alla soglia dei trent'anni il giovane progettista ha esaurito il suo percorso di formazione; apre la partita Iva e da lì in poi farà affidamento solo sulle proprie forze e sul paniere di contatti che ha raccolto negli anni. È il momento più spaventoso ed emozionante, quello in cui si spicca il volo dopo anni di lavoro di batteria in studi più o meno affermati.

Si entra nel mondo degli adulti, di quelli che firmano le idee con il proprio nome. Sommella ha disegnato lampade, giocattoli per animali, sex toys e, più recentemente, prodotti di elettronica di consumo per importanti aziende giapponesi. All'inizio si guadagna lentamente: dopo la fase di sviluppo, le aziende cedono al progettista una percentuale sul venduto. Ci vuole un po' di tempo prima di avere abbastanza oggetti sul mercato da goderne i frutti. Così, intanto, si fanno altri lavori: Sommella, per esempio, fa il docente, e negli ultimi anni ha avuto un'entrata fissa
insegnando design del prodotto presso un prestigioso istituto di moda milanese.
«Il percorso di formazione in studio segue un po' il modello della bottega», spiegano Alberto Ghirardello e Irene Sartor, due ragazzi veneti, 27 anni lui, 25 lei; si sono conosciuti durante il triennio allo IUAV di Treviso.

«Alla nostra età, siamo tra i pochi che riescono a essere autonomi e a non chiedere soldi alla famiglia», dichiarano con una punta di orgoglio, mentre preparano il caffè con una moka rosa dalle fattezze suine. Intanto dispiegano il romanzo di formazione del giovane designer: dopo la laurea si fa lo stage, e non c'è nessun compenso, a parte un gettone che copre a malapena le spese. Si viene pagati in conoscenze. Chi resta in sella diventa junior designer, poi senior, e arriva a una cifra di 1.000-1.500 euro al mese. Qualche mosca bianca si ferma in uno studio per quattro anni. Come Alberto e Irene che continuano a lavorare con i loro maestri del Politecnico, lui con Giulio Iacchetti e lei con Matteo Ragni. «Ho avuto costanza», afferma Irene.

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