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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2012 alle ore 11:29.

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Non è cambiato molto, sull'isola di Grain, dai tempi in cui Dickens ne fece il teatro perfetto per l'esordio e l'epilogo di Grandi Speranze: non la vasta distesa d'erba bruna, e neppure il fango che la bassa marea fa riaffiorare sul letto del fiume, attirando stormi di uccelli famelici. Ma il paesaggio oggi non è più un idillio, ammesso che mai lo sia stato. Il camino di una centrale elettrica incombe sulle case.

I serbatoi bianchi di un rigassificatore svettano in lontananza. E verso il mare, quattro enormi rosse gru scaricano in continuazione container cinesi. C'è quasi tutto, si direbbe, tranne la minima traccia di un aeroporto. Eppure è proprio qui, sull'estremo lembo del Tamigi a trenta miglia da Londra, che potrebbe sorgere un giorno lo scalo più grande e moderno del mondo.

Nella capitale britannica l'idea del nuovo aeroporto è diventata già baruffa da campagna elettorale. Sebbene il sindaco non abbia poteri diretti (la decisione spetta al Governo – che pare favorevole), in una metropoli che ha costruito sui traffici le sue fortune litigare su come spostarsi pare una condanna del destino. E sicuramente drenerà consensi nella sfida del 3 maggio tra l'attuale inquilino di City Hall, il conservatore Boris Johnson (strafavorevole) e lo sfidante laburista Ken Livingstone (arcicontrario). Di un aeroporto sull'estuario del Tamigi si parla da decenni. L'ultimo progetto, firmato dal padre del Gherkin (il famoso grattacielo della City soprannominato "il centriolo") Norman Foster, è di certo il più ambizioso e visionario: una piattaforma dotata di quattro piste, con l'energia elettrica garantita dalle maree, una rete di collegamenti sotterranea e 150 milioni di passeggeri annui stimati. Trattandosi di una faccenda che sta agli inglesi come il ponte di Messina agli italiani, il condizionale è d'obbligo.

Anche se qualcuno, stavolta, dovrà decidere in fretta se trasformare le elaborazioni al computer in realtà. Il vecchio Heathrow ormai è un corpaccione obeso: sessant'anni fa, scalando le classifiche dei passeggeri, fece presto a diventare la nuova porta di Londra sul mondo, passerella scintillante dell'egemonia britannica nell'industria aerea, mentre ora, con una capacità satura al 99 per cento e 45 secondi di tempo tra ogni decollo e atterraggio, basta una nevicata qualunque per incepparlo. Certo, la capitale più globalizzata può contare già su ben sei scali internazionali (oltre a Heathrow: Gatwick, Stansted, Luton, City e il recentissimo Southend). Ma il nodo scorsoio resta il futuro dell'hub. Quello che da solo occupa 80mila persone e nutre un indotto grande almeno il doppio. Heathrow subirà nei prossimi anni una drastica cura anti-età: nuovi satelliti al Terminal 5 disegnato da Richard Rogers e un restyling totale del Terminal 2, affidato proprio allo studio Foster. E ne uscirà come una sorta di tostapane, con le moderne strutture di accoglienza piazzate nel mezzo delle piste.

Tutto bene, se non fosse per quel numero, due, che strozza ogni velleità di sviluppo rispetto ai concorrenti: Parigi di piste ne ha quattro, e Amsterdam addirittura cinque. E se non fosse che l'idea di una terza runway e di un sesto terminal, cara al precedente esecutivo laburista e a un fronte di industriali e sindacati, si è arenata sulle barricate dei residenti, spalleggiati da conservatori e lib-dem. Nessuno ora vuole turbare ulteriormente il sonno dei londinesi, tutt'altro che entusiasti all'idea di ritrovarsi una terza linea di atterraggio sulla testa. Così lo spumeggiante sindaco Johnson, che miete un sacco di voti nei bei quartieri occidentali, si è fatto sponsor del nuovo aeroporto, magari in versione "Boris island", cioè su un'isola artificiale in mezzo al mare.

Quali saranno i Nimby (i protestatari Not In My Back Yard, "Non nel mio cortile") più insidiosi, i 2mila abitanti di Grain o i 750mila di uno spicchio di Londra? E quale la scelta migliore? Downing Street spera che sia la consultazione pubblica prevista in estate a togliergli l'imbarazzo. Ma per i sondaggi la gente è divisa: il 25 per cento vorrebbe ingrandire Heathrow, il 21 per cento un aeroporto nuovo di zecca. Mentre gli ambientalisti affilano le consulenze legali in difesa dell'isola-paradiso degli uccelli. «Il colosso di Foster sarebbe inquinante, costosissimo e inutile – protesta già il Wwf –. Se Heathrow è al collasso spostino i voli domestici sugli altri scali». Qualcuno in effetti aveva suggerito un tunnel ad alta velocità tra Heathrow e Gatwick, ma l'idea è finita presto nel cestino delle sciocchezze. E tutta la storia è diventata il paradigma dei dilemmi della società occidentale sulle Grandi Opere.

Huw Thomas, responsabile del team Foster, è l'uomo che materialmente ha assemblato il progetto. Dai suoi uffici vetrati con fantastica vista su Battersea Bridge lo definisce «la migliore risposta al declinismo, il tentativo di immaginare un futuro per le nuove reti del mondo globale». L'aeroporto di Grain sarà collegato con l'alta velocità al centro di Londra, a Parigi e Bruxelles. E le merci raggiungeranno il nuovo London Gateway (l'enorme interporto in costruzione a est della capitale che accoglierà le navi cinesi, ndr). «Si dice che bisogna rilanciare la manifattura: perché non darle una base moderna per gli scambi?». Thomas sfoglia sull'iPad il suo personale libretto delle meraviglie: «Cinquanta miliardi di sterline di investimento non sono un'enormità se si tratta di riprogrammare lo sviluppo di un Paese. Dobbiamo fare oggi quello che i vittoriani fecero con le ferrovie. E guardare ai mutamenti del mercato del lavoro: a inizio Novecento dominavano le miniere, poi la manifattura, dagli anni Ottanta i servizi.

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