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Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2012 alle ore 08:18.

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Quanta politica si fa attraverso l'arte? E quando l'arte si può dire politica? Quesiti simili muovono l'ultima Biennale di Berlino, intitolata «Dimenticare la paura», aperta due giorni fa in chiara polemica con l'atteggiamento apolitico dichiarato dalla prossima dOCUMENTA(13) di Kassel.
In effetti i fermenti che attraversano come il filo di un'impuntura tutto l'ultimo secolo artistico trovano ora una nuova attualità: in tempi di pace è facile sostenere che l'arte deve parlare alle anime, arrivare alle coscienze, impegnarsi soprattutto nel linguaggio e trasmettere poesia più che impegno. Ma in tempi di quasi-guerra, come sono quelli nei quali ci troviamo, riemerge la tentazione di chiedere all'opera un impatto volontario sul sociale: è difficile lasciare a casa temi quali la finanza impazzita, la fatica dei popoli emarginati, la certezza che si stia ripetendo un copione europeo che inizia sempre con l'ipertrofia tedesca. Non possiamo dimenticare gli sforzi, e forse anche i risultati, dei costruttivisti russi, dei muralisti messicani, di coloro che hanno segnalato la speculazione edilizia, da Dan Graham ad Hans Haacke a Rachel Whiteread, fino ai gruppi come Act Up o Grand Fury che hanno sensibilizzato sul tema dell'Aids, della differenza di genere e di razza.
Per il curatore della Biennale di Berlino, l'artista Artur Z.mijewski coadiuvato dalla teorica Joanna Warsza, il metodo principale con cui svolgere questo compito è stato quello di mettersi in ascolto dei movimenti politici già esistenti. Inoltre, per non chiudere i partecipanti nel solito rosario di nomi noti, si è proceduto a un'open call che ha portato nell'archivio della manifestazione circa settemila domande. Purtroppo questa seconda mossa ha qualcosa di demagogico, giacché alla fine una scelta è stata fatta e molti tra i selezionati hanno già un ruolo nel gioco di società dell'arte nota. La prima decisione, però, quella di dare voce ai numerosi movimenti di protesta di questi anni, sulla carta (e sull'interessante sito web della mostra) sembrava la cosa giusta nel luogo e nel momento giusti.
L'idea era quella di sottolineare le azioni di solidarietà, cosa che giustifica la presenza di coloro che da mesi occupano il Teatro Valle di Roma per difenderlo dalla chiusura o di iniziative come quella di Yael Bartana, che cerca di richiamare in Polonia oltre tre milioni di ebrei per ristabilire l'equilibrio della comunità ebraica annientata.
Purtroppo il giro di Berlino con la mappa della BB7 in mano ha invece esiti sconfortanti, a partire da un logo minaccioso che ribalta le B di Biennale e Berlino e le congiunge con un sette in mezzo, raggiungendo un risultato visivo tra la svastica e l'aquila.
Al KunstWerke, il luogo centrale della mostra, troviamo una tenda militare con dentro un sofà che ci incita a «Occupy Berlin», ma pensando al passato non c'è molto di spiritoso. Attraversiamo muri pieni di scritte di protesta di un bell'arancione fluo; sugli architravi compaiono in grande slogan come Global Change o Feel Free: manca Peace and Love per sentirsi hippy. All'ultimo piano ci attendono centinaia di piantine da mettere a dimora per la città, installate nell'ambito del progetto Berlin-Birkenau. Peccato che piantare alberi per non dimenticare sia una delle pratiche più seguite nella comunità ebraica e quindi non si sia inventato niente.
Il polacco Pawel Althamer ha organizzato in una chiesa il Draftsmen's Congress, un meeting continuo in cui ciascuno è invitato a portare immagini che reagiscano contro la politica corrente e dove chiunque dovrebbe potere esprimere «amore, odio, opinioni e domande. Sputa fuori e urla». Purtroppo, in tanta democrazia, quello che emerge è il protagonismo di Althamer che ha già al suo arco un fitto curriculum di mostre e di vendite.
Tra coloro che si apprestano a seguire l'invito a indignarsi lanciato dal pamphlet di Stephane Hessel, molti umiliano le vittime invece che onorarle: per esempio, al KustWerke era attesa una enorme chiave simbolica eseguita da un collettivo di profughi a Betlemme. Portata dalla Palestina alla Germania con un viaggio iniziato il 12 marzo, ora campeggia nel cortile come una scultura pop di Claes Oldenburg; il pubblico dell'inaugurazione la schivava per non inciampare mentre reggeva calici di vino rosso. Gli stessi piedi e le stesse mani, questa volta con in mano champagne, si sono poi spostati all'inaugurazione di una mostra di Roman Ondak sponsorizzata dalla Deutche Bank, promossa di politici locali e ospitata dalla sede berlinese del gruppo Guggenheim. La cosa strideva anche con la pretesa della BB7 di propagandare il manifesto Occupy Museums, ispirato a quanto è accaduto dal 17 settembre a Wall Street. L'idea del gruppo, per niente balzana, è che ci possa essere «una connessione diretta tra la corruzione dell'alta finanza e la corruzione dell'alta cultura. Per esempio, il board del MoMA condivide membri con quello della casa d'aste Sotheby's». Ma allora perché non cogliere certe occasioni per protestare, così come è stato fatto appunto al MoMA di New York poco fa, ma anche nel lontano 1938 da Diego Rivera e André Breton?
Quello che irrita è infatti l'assenza di azioni nonostante la dichiarazione in catalogo che l'arte è uno degli strumenti del cambiamento. Qui tutto è protetto, infantile, fittizio come un gioco di soldatini. Forse un tempo i regimi bruciavano le opere d'arte sgradite, mentre oggi i sistemi democratici lasciano che gli scontenti si sfoghino nei luoghi in cui risultano inoffensivi. Il dissenso si estetizza e si anestetizza, insieme col suo corredo di riferimenti ideologici, e rende all'arte un servizio che è quasi peggio della sua trasformazione in bene di lusso. Insomma i curatori Z.mijewski e Warsza sembrano essere caduti in un tranello.

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