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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2012 alle ore 08:15.

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L'Università di Fort Hare, in Sudafrica, è un interessante osservatorio dal quale esaminare cosa è accaduto in questo Paese nella ventina d'anni che sono trascorsi dal crollo del regime dell'apartheid. È stata fondata nel 1916 da un gruppo di missionari scozzesi, ma negli anni 50 e 60 è diventata di fatto l'istituzione che avrebbe formato i futuri leader del movimento di decolonizzazione africano. Fra gli ex studenti si contano Nelson Mandela, Oliver Tambo (ex presidente dell'African National Congress), Robert Sobuwke, fondatore del Pan-African Congress, Robert Mugabe (attuale presidente dello Zimbabwe) e Chris Hani, leader del Partito comunista sudafricano (assassinato da estremisti di destra nel 1993). Negli anni 50 il cappellano del l'Università era Desmond Tutu.
Ad aprile sono stato invitato dall'Università e dalla Fondazione Friedrich Ebert a tenere un ciclo di conferenze e mi sono trovato immerso in un continuo scambio, vivace e infervorato, con la ventina di studenti (fra cui due bianchi) che partecipavano alla settimana di lezioni e seminari. Quegli studenti, accuratamente selezionati da una rosa di università in base ai meriti accademici, dovevano rappresentare la futura élite del Paese. Mi sarei aspettato di sentire da parte loro un'accalorata denuncia dei mali del regime dell'apartheid e un'accusa persistente nei confronti della minoranza bianca, ancora prospera e influente, per i tanti problemi che affliggono il Paese. Ma quello che avevo davanti era un gruppo pragmatico che voleva andare oltre la solita retorica, tanto che criticava l'African National Congress (Anc) al governo, per quanto molti di loro ne fossero simpatizzanti. Il problema, mi spiegarono, era che l'Anc (che quest'anno celebra il suo centenario) adotta ancora lo stesso linguaggio militaristico-rivoluzionario che poteva andare bene all'epoca in cui era un'organizzazione clandestina, ma che, oggi come oggi, è sempre più inadeguato al suo ruolo di partito di governo.
Uno dei problemi dell'Anc è il potere di cui dispone. La famosa massima di Andreotti, «Il potere logora chi non ce l'ha», potrà anche essere valida, ma il fatto è che il potere finisce per logorare chiunque. Dopo la legittima vittoria elettorale con una maggioranza schiacciante, l'Anc è diventato, come alcuni partiti europei dei dopoguerra (e il pensiero va alla Dc italiana), un'organizzazione che se perde potere, teme di scomparire (che è poi quello che alla fine è successo alla Dc).
Ma l'esempio più vicino al Sudafrica è lo Zambia: Kenneth Kaunda, storico leader dell'indipendenza zambiana, è rimasto al potere per quasi trent'anni (spesso come unico partito legittimo). Dopo un lungo periodo di regime autoritario, alle elezioni (regolari) del 1991 venne scalzato dal New Movement for Multi-Party Democracy di Frederick Chiluba. Kaunda se ne andò di buon grado, ma il suo partito cominciò un rapido declino e nelle elezioni dello scorso anno ha perso gli ultimi seggi. L'Anc conosce bene questa storia e nel suo documento intitolato Organisational Renewal (rinnovamento strutturale, ndt) riconosce l'erosione dei valori, l'eccesso di corruzione, l'attaccamento al denaro, il proliferare di pratiche clientelari che ci sono stati in seno all'Anc e ammette che l'Anc non dovrebbe «diventare troppo dipendente dall'attuale posizione di potere» e che «altri partiti di governo sono completamente scomparsi dalla società il giorno in cui hanno perso il loro potere» (http://www.anc.org.za/docs/discus/2012/organisationalrenewalf.pdf).
I giovani studenti pensano anche che il governo guidato da Jacob Zuma, proprio come i suoi predecessori, stia facendo buon viso alle multinazionali estere, il che in parte era inevitabile. Lo Stato dell'apartheid, per quanto venisse generalmente percepito come capitalista, era lungi dal perseguire politiche economiche liberali. Lo Stato interveniva in ogni settore: sovvenzionava in modo massiccio l'agricoltura che era concentrata (e lo è ancora) nelle mani degli agricoltori bianchi, proteggeva le imprese (dei bianchi) e aveva intessuto un'intricata burocrazia. Negli anni 80, quando si stava profilando la fine del regime dell'apartheid, l'economia era in grande difficoltà, in parte a causa del boicottaggio finanziario delle banche occidentali, ma soprattutto perché l'autarchia economica non poteva produrre crescita, nemmeno per la minoranza bianca. Quando, dopo tre anni di transizione negoziata, il nuovo governo di Mandela salì al potere (nel 1994), decise, dopo due anni di sofferti dibattiti, di intraprendere il cammino della globalizzazione. In gran parte del continente africano la globalizzazione era stata imposta dall'esterno, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. In Sudafrica era stata una decisione del nuovo governo insieme alle conglomerate minerarie sudafricane che, alla fine dell'apartheid, controllavano l'80 per cento della Borsa (la decima al mondo). Tuttavia, per ovvie ragioni politiche non fu possibile lasciare scoperte ampie fasce della società africana che nutrivano grandi aspettative dalla caduta del tanto odiato regime razzista. Di conseguenza, con la liberalizzazione del settore privato e del commercio estero, il nuovo governo sviluppò anche un articolato sistema di protezione sociale che prevedeva un salario minimo e un'assistenza senza precedenti in Africa. E questo gli è costato. Senza contare che il regime precedente si era lasciato dietro gravi problemi infrastrutturali: più della metà della popolazione nera era senza elettricità (e la situazione non è cambiata poi molto), il livello di istruzione era bassissimo anche rispetto agli standard degli altri Paesi africani e l'accesso all'acqua potabile ancora limitato. Oggi 5 milioni di persone non hanno ancora un approvvigionamento idrico adeguato (anche se sotto il vecchio regime erano 14 milioni). È una situazione che il governo non può ignorare. Inoltre, per evidenti ragioni politiche, il governo ha dovuto promuovere la crescita di una borghesia nera ancora fortemente dipendente dallo Stato, pur continuando a mantenere il benessere economico della minoranza bianca (9 per cento della popolazione), e questo faceva parte del compromesso secondo il quale i bianchi perdevano potere politico ma mantenevano i loro privilegi economici. Di conseguenza la situazione per la popolazione nera non è migliorata granché.