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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2012 alle ore 11:51.

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Vorrei dire al lettore di fermarsi qua, di non andare oltre. Di non vedere queste foto. Vorrei dire al lettore di non portare il giornale a casa se ha dei bambini, di non lasciarlo in giro se ha una fidanzata, un compagno, marito o moglie debole di stomaco o che non riesce a sopportare certe immagini.

Vorrei dire al lettore di tenere, per questo mese, la copertina rivolta verso il basso, nascosta. Vorrei dire al lettore di non aprire questo giornale, rischiando di mostrarlo ai vicini di posto, in treno, in metro o sul bus.

Vorrei consigliargli tutto questo, ma non lo faccio. Anzi, so benissimo che scrivendone sto invitando il lettore a guardarle, queste foto, forse anche con maggiore attenzione. Ma non posso fare a meno di avvertirlo: gli daranno fastidio e non perché mostrano fori di proiettile e corpi martoriati. Non è solo questo che raccontano. Queste foto descrivono un mondo e un sistema di cose. Se vedi un corpo martoriato, lo senti lontano, magari ti incuriosisce, ma la curiosità è solo istinto. Soddisfatto, svanisce. Se invece scorgi un meccanismo fatto di regole e prassi che ti vengono svelate e che riesci a comprendere perfettamente, se ti accorgi che tutto è coerente, che tutto ha un senso e segue leggi non scritte ma note, ecco che le foto iniziano a mettere paura, a inorridire, perché smettono di essere "incidenti" e diventano descrizione di un "sistema".

Eppure, se siete arrivati sino a qui, significa che avete deciso di leggere queste parole e di vedere queste foto. In Messico si combatte una vera e propria guerra civile, più o meno ignorata dai media. Ma i cartelli messicani hanno necessità di comunicare e rendere noto il loro potere. Spesso lo fanno attraverso omicidi spettacolari sapendo che i giornalisti di mezzo mondo non parlerebbero dell'ennesimo omicidio in America Latina, se non per riportarne le brutali modalità: il corpo di una bella donna, una giornalista, loro collega, lasciato esanime in bella mostra nel centro di una città. Con testa e mani mozzate e con parti di computer buttate lì, accanto al cadavere.

Un omicidio tanto efferato quanto simbolico. Un simbolismo che chi si occupa di mafie non fa fatica a riconoscere e a comprendere. La giornalista ha diffuso ciò che ha visto (la testa mozzata) scrivendolo (mani mozzate) sui social network (tasti di computer, un lettore mp3 e diversi cavi). Non è un esempio astratto questo, ma proprio ciò che è accaduto a María Elizabeth Macías, 39 anni, caporedattore di Primera Hora. María Elizabeth Macías non scriveva contro i narcos con inchieste, non svelava tangenti di politici o sbirri corrotti. Semplicemente scriveva come evitare i luoghi pericolosi, i locali dello spaccio e dell'investimento. Come stare al sicuro. Questo è bastato per condannarla a morte.

Vi starete chiedendo come sia possibile che al silenzio preferiscano la notorietà, le pagine dei giornali, l'attenzione. Semplice: per ammonire, per dare avvertimenti, per rendere note la propria forza e la propria ferocia. E soprattutto per stabilire questo: «Si può scrivere di noi, si può parlare di noi, si può raccontare cosa facciamo, ma alle nostre condizioni». Le informazioni possono circolare, ma non ovunque, non per accendere luce e bloccare investimenti. Possono e devono circolare per accrescere la loro fama e i timori degli affiliati e dei cartelli rivali. Quando però le informazioni arrivano a troppi, quando falliscono il loro scopo, scattano le ritorsioni, la morte spettacolare che è monito per tutti.

Non mi stancherò mai di raccontare la storia di Christian Poveda, fotoreporter e documentarista franco-spagnolo, ucciso per aver realizzato un documentario sulle Maras. La vida loca è stato girato quasi interamente alla Campanera, la roccaforte della gang M-18 (Mara 18) in eterna lotta con la rivale Mara Salvatrucha. E la cosa singolare è che Christian Poveda aveva avuto dai capi il permesso di seguirli e riprenderli. Poveda racconta come le strade del Salvador si siano riempite di gang di ragazzini che controllano il traffico di droga e si lanciano in mostruose guerre tra bande. Un esercito che varia dai 30 ai 50mila affiliati. Il documentario fu presentato nel 2008 al Festival internazionale del cinema di San Sebastian e incuriosì molti giornalisti che andarono in Salvador per verificare e approfondire il lavoro di Poveda. Ecco, questo lo condannò a morte: l'attenzione internazionale su ciò che accadeva in un angolo remoto di mondo. L'attenzione internazionale sui traffici e soprattutto sui rapporti tra le Maras e la politica. Il 2 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che però muore in totale silenzio, in Italia, in Europa, ovunque. Lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: «Hai scritto di queste cose?», o meglio, «Hai ripreso queste cose? Non puoi che essere condannato».

I nuovi killer, le nuove leve, sono adolescenti. Dinamici, curiosi, non costosi e senza famiglie o mogli a cui rendere conto. Un omicidio può esser pagato da 15 euro sino a 10mila euro. Dipende dalla qualità del servizio, dal livello del rischio, dal bersaglio. Sono ragazzini salvadoregni, honduregni, nicaraguensi, guatemaltechi, messicani. Le nuove leve della ferocia contemporanea. Si addestrano sugli animali, sparano ai cavalli in corsa negli allevamenti, in testa ai cani, sulle pecore al pascolo. Poi arrivano agli uomini. La prova che l'organizzazione chiede è di ammazzare e poi tornare sul luogo del delitto, magari andare al funerale per star sicuri di non essere riconosciuti e quindi di aver fatto un buon lavoro, un lavoro pulito. A questo punto la formazione è finita e il compenso si adeguerà alla professionalità del killer.

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