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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2012 alle ore 11:20.
L'ultima modifica è del 24 dicembre 2013 alle ore 10:56.
La biografia di Turing a cura di Andrew Hodges si chiama Storia di un enigma. Il riferimento è naturalmente alla macchina per cifrare del Reich che il matematico decrittò durante la seconda guerra mondiale; ma non solo. Al di là del centenario, la figura di Alan Turing continua a porsi come un enigma essa stessa. Perché?
A mio avviso la risposta sta nell'impossibilità di ridurlo a una figurina oleografica. Sarebbe facile, certo: gli elementi ci sono tutti: la genialità, la riservatezza, il fascino esoterico della disciplina, l'omosessualità... Ma l'eredità di Turing è un enigma proprio perché, nonostante la retorica del memorialismo, continua a porre alla nostra epoca delle domande autentiche e cruciali. Il suo lavoro e la sua vita sono un costante invito a pensare la complessità: ha interpretato e anticipato le contraddizioni di un'epoca, e insieme ne è stato travolto.
Gli esempi si sprecano. La macchina di Turing è un lavoro seminale sull'algoritmica – disciplina che regge le ricerche sulla rete, una pratica oggi quotidiana; lo studio sull'intelligenza artificiale e il celebre "test di Turing" sono un tema quanto mai attuale, in un mondo dove ci si chiede se i computer debbano avere libertà d'espressione; per non parlare del già citato lavoro di decrittazione, che prefigura la moderna "guerra dell'informazione".
Ogni aspetto del suo pensiero è permeato da rigore profondo e da una fede radicale nel processo logico, ma non ha nulla di piatto o meccanico. Anzi, è colmo di passione e stupore: come scrive Hodges, "Predicava il computabile, ma non perse mai la meraviglia". E questo trova un senso ancora più tragico nella sua fine – l'ultimo messaggio ai nodi irrisolti del tempo.
La storia è nota: negli anni Cinquanta Turing fu incriminato per condotta immorale a causa della sua omosessualità. Sottoposto a una "cura", venne castrato chimicamente e sviluppò un seno dovuto agli ormoni assunti: si uccise addentando una mela avvelenata al cianuro. Il tremendo parallelismo con la fiaba di Biancaneve è immediato, ma anche impreciso: come scrive David Leavitt ne L'uomo che sapeva troppo, "nessuno ha mai citato quello che a me pare il messaggio più ovvio. Nella favola la mela che viene addentata da Biancaneve non la uccide, ma la addormenta finché il Principe non la sveglia con un bacio". Turing non ebbe questo privilegio.
Se gli storici della scienza hanno tutte le ragioni per ricordare il suo genio, forse ogni individuo dovrebbe ricordarlo per questo semplice motivo: al pari di altri sconosciuti, morì incolpevole per amore: non come un genio, ma come un essere umano distrutto dal dolore.
In una lettera all'amico Norman Routledge fece dell'amara ironia sulla sua condizione dopo l'arresto, usando questo sillogismo: Turing crede che le macchine pensino; Turing va a letto con gli uomini; dunque le macchine non pensano. Purtroppo, molto spesso non pensano nemmeno gli esseri umani. L'opera di Turing resta un monito per farlo ancora, e ancora, e meglio.
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