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Questo articolo è stato pubblicato il 27 giugno 2012 alle ore 11:37.

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illustrazioni di La Tigreillustrazioni di La Tigre

Ogni volta che sento un editore lamentarsi perché «in Italia si legge troppo poco», penso che è vero il contrario: in Italia si legge troppo. Ne consegue che si legge male. Basta scorrere rapidamente la classifica dei libri di narrativa più venduti dell'ultima settimana per accorgersi che tra i primi quaranta titoli se ne contano forse due o tre che valgono qualcosa di più della carta su cui sono stampati.

Uno di questi – preziosissimo – è Resistere non serve a niente di Walter Siti, dove capita di imbattersi nel personaggio di Gabry: una di quelle fotomodelle anoressiche e imbronciate che marciano al passo dell'oca («si nutrono ad alghe e Big Babol, nella borsa Stella McCartney tengono lipstick idratante, mezzo litro di Evian, due assorbenti interni e un preservativo alla frutta») e che si dividono tra una sfilata di Oscar de la Renta e la prostituzione d'alto bordo. «Gabry», scrive Siti, «legge poco ma scelto: odia quando le slovacche o le venezuelane si scambiano i libri di Coelho e della Allende insieme alle pringles gusto paprika e al piegaciglia».

Il risentimento che incessantemente scava tunnel nel fegato di ogni scrittore, alla lettura di questo passo s'è preso una pausa, appoggiandosi alla pala; e l'invidioso che è in me ha provato un improvviso senso di pace nel vedere sbertucciato uno scrittore che è riuscito a vendere un milione di copie di un suo romanzo raccontando il pellegrinaggio mistic-new age di un pastore che parte da Tangeri e arriva fin sotto le piramidi per consegnarci il succo della sua illuminazione: «Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose»; per non parlare dell'inattaccabile cilena, dietro il cui successo ricattatorio (padre morto per mano di un sanguinario dittatore, cristallino e appassionato impegno civile) un bastardo come Roberto Bolaño intravedeva il «glamour di sudamericana in California» e un «esercizio della letteratura che va dal kitsch al patetico».

Per averne conferma, prendo Eva Luna e nell'incipit apprendo che la protagonista, «nata nell'ultima stanza di una casa buia» è cresciuta tra mobili antichi: «ma questo non mi ha reso malinconica», precisa l'io narrante, «perché sono venuta al mondo con un soffio di foresta nella memoria». Un soffio di foresta nella memoria – mio Dio! Ma il disgusto prende il sapore della bile quando scopro che quella che ho tra le mani è la trentesima edizione del romanzo, stampata nel 1997. Adesso quante saranno? Cinquanta, ottanta, cento?
Oh, parliamoci chiaro: l'invidia – quella vera – tra scrittori non esiste; ce n'è semmai una, strettamente bancaria, che prova ogni scrittore nei confronti dei colleghi che giudica di rango inferiore e che però vendono molto più di lui (così la pensava Carlo Fruttero, uno che vendeva moltissimo e del cui rango, a torto, in passato, s'è spesso dubitato).

Quindi, sì; se qualcuno di voi pensa che io parlo male dei bestseller per invidia, ha colto nel segno: trattasi, appunto, di invidia bancaria. Ma oggi tutto questo non conta, perché intendo parlarvi da un pulpito diverso: oggi, infatti, sono un Lettore. Fate attenzione: non un lettore comune, uno di quelli con la l minuscola che hanno trovato l'illuminazione ne L'alchimista e si commuovono compulsando le autobiografie delle presentatrici televisive (saghe familiari con mamme dal cuore grande e con una storia segreta da raccontare); io sono un Lettore con una L grossa così, sono merce rara, la punta di diamante di quella categoria che l'Istat chiama "lettori forti", e cioè gli italiani che nell'arco di un anno leggono più di dodici libri; io dodici libri li faccio fuori in un mese, leggere è il mio vizio e ne sono geloso. A tal punto che detesto quest'esercito che si fa consigliare i libri dalla tv e fa shopping in libreria come fosse una boutique («ce l'hanno tutte le mie amiche»).

Odio soprattutto le lettrici: sempre secondo l'Istat, il lettore-tipo è donna, laureata, del Centro-Nord, mentre risulta che i maschi italiani in pratica non leggono – e meno male! visto che la vera ignoranza si annida negli immensi bookstore Feltrinelli, col gregge in pellegrinaggio lungo la via crucis scandita dall'alfabeto (A come Allende, B come Brown, C come Coelho). Io propongo che chi si avvicina allo scaffale dedicato alla lettera P e sceglie un thriller di James Patterson debba essere squalificato per sei mesi; sarebbe magnifico se gli venisse applicata una di quelle cavigliere con sistema gps incorporato che si mettono ai detenuti in libera uscita: appena prova a varcare l'ingresso di una libreria… driiinnn… ed ecco due agenti in borghese che lo caricano su un furgoncino coi vetri oscurati.

Ci sono stati tempi in cui chi leggeva Mai amare uno straniero di Harold Robbins lo faceva vergognosamente nel segreto della propria cameretta. Poi la cultura – dispensata alle masse – si è trasformata in una forma di intrattenimento; e oggi capita di imbattersi in qualche presuntuoso ignorante che pretende di convincerti che Stieg Larsson è un grande scrittore; magari è uno che manda i figli solo alle scuole migliori, beve vini pregiati ed è sempre al volante dell'ultimo modello delle auto più chic. Però non legge La commedia umana, legge la trilogia Millennium («vuoi mettere?»); sazia la sua sete con le etichette delle bottiglie.

Io non pretendo che costui legga Le illusioni perdute: tutta la bellezza di un libro, se chi la riceve non sa ammirarla, agonizza attorno allo spillo, infilzata come una farfalla, e i suoi colori svaniscono. Io voglio che quest'uomo sia tenuto lontano da una libreria, ad ogni costo. Se tutti quelli come lui (o lei) venissero dissuasi dall'esercizio disinvolto della lettura, molte case editrici sarebbero costrette a chiudere ma la letteratura la smetterebbe di ridursi a una sola esigenza, a una sola preoccupazione: raccontare storie in cui il lettore possa riconoscersi («come è bravo! Sembra che riesca a leggermi nel pensiero!») utilizzando una lingua che non crei alcuna resistenza. Inscrivendosi non più alla politica della democratizzazione della cultura, ma di nuovo alla politica del gusto (che è, nella sua essenza, oligarchica), la letteratura riuscirebbe così ad evitare, forse, il pericolo di perdere ciò che i fisici chiamano la "massa critica", quella massa implosiva che esercita nelle camere di risonanza dell'io.

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