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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2012 alle ore 08:45.

illustrazioni di Olimpia Zagnoliillustrazioni di Olimpia Zagnoli

Torniamo all'Arabia Saudita: insisto a citare questo Paese non solo perché quando ci sono stata, a 15 anni, ne sono rimasta talmente traumatizzata da diventare femminista, ma perché il Regno persiste senza vergogna a venerare un Dio misogino, e non ne paga mai le conseguenze grazie al doppio privilegio di avere il petrolio e di ospitare due dei luoghi più sacri dell'Islam, La Mecca (04) e Medina. Allora (anni Ottanta e Novanta) come oggi, i religiosi alla tv saudita erano ossessionati dalle donne e dai loro orifizi, soprattutto da quello che ne usciva fuori. Non dimenticherò mai quella volta che sentii dire che se un bambino maschio ti urina addosso, puoi continuare a pregare con gli stessi vestiti, ma se la pipì è di una femminuccia, devi cambiarti. Che ci sarà mai nell'urina di una bambina che rende così impuri?, mi chiedevo. L'odio per le donne.
Quanto odia le donne l'Arabia Saudita? Tanto da far morire 15 ragazze nell'incendio della loro scuola alla Mecca, nel 2002, perché la "polizia della morale" aveva impedito loro di fuggire dall'edificio in fiamme (e impedito ai vigili del fuoco di soccorrerle), perché le giovani non indossavano il velo e la tunica obbligatori nei luoghi pubblici. E non successe nulla. Nessuno fu processato. I genitori furono costretti al silenzio. L'unica concessione fu che l'allora principe ereditario Abdullah sottrasse senza tanto clamore l'istruzione delle ragazze agli estremisti salafiti, che continuano tuttavia a esercitare un ferreo controllo sul sistema scolastico del regno.

Non si tratta di un fenomeno esclusivamente saudita, non è una peculiarità rivoltante del ricco e isolato deserto. L'odio islamista contro le donne brucia con forza tutta la regione, ora più che mai. In Kuwait gli islamisti hanno perseguitato le quattro donne che alla fine erano riuscite a entrare in Parlamento, chiedendo che le due che andavano a capo scoperto indossassero l'hijab, il velo. Quando, nel dicembre scorso, il Parlamento è stato sciolto, un parlamentare islamista ha chiesto alla nuova Camera, composta esclusivamente da uomini, di mettere in discussione il suo disegno di legge sull'"abbigliamento decoroso".
In Tunisia, il Paese che per molto tempo è stato una specie di faro di tolleranza nella regione, le donne hanno fatto un respiro profondo l'autunno scorso, quando gli islamisti di Ennahda hanno ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni per l'Assemblea costituente. I leader del partito si sono impegnati a rispettare il Codice dello statuto personale del 1956, che sancisce «il principio di parità fra uomo e donna» e mette al bando la poligamia. Ma da quel momento professoresse e studentesse universitarie denunciano aggressioni e intimidazioni da parte degli islamisti contro quelle che non portano il velo, mentre molte attiviste per i diritti delle donne si domandano che ripercussioni avranno i discorsi sul diritto islamico sulle leggi della Tunisia post-rivoluzionaria.

In Libia, la prima cosa che ha promesso di fare il capo del Governo provvisorio, Mustafa ‘Abd al-Jalil, è stata revocare le restrizioni sulla poligamia imposte dal defunto tiranno libico. Non pensate che Muammar Gheddafi fosse una sorta di femminista: sotto di lui le ragazze e le donne che sopravvivevano ad aggressioni sessuali o erano sospettate di "crimini contro la morale" venivano spedite nei "centri di riabilitazione sociale", di fatto delle prigioni da cui non potevano uscire a meno che un uomo non acconsentisse a sposarle o la loro famiglia non accettasse di riprenderle con sé.

E poi c'è l'Egitto, dove, a meno di un mese dalle dimissioni del presidente Hosni Mubarak, la giunta militare che lo ha sostituito, ufficialmente per "proteggere la rivoluzione", ci ha inavvertitamente fatto tornare alla mente le due rivoluzioni di cui noi donne abbiamo bisogno. Dopo aver sgombrato Piazza Tahrir dai manifestanti l'esercito ha trattenuto decine di attivisti, maschi e femmine. I tiranni opprimono, picchiano e torturano senza fare eccezioni, questo lo sappiamo. Ma questi ufficiali hanno riservato alle manifestanti un trattamento speciale, il "test di verginità": una violenza sessuale mascherata da visita medica, con il medico che infilava le dita nella fessura vaginale per individuare la presenza dell'imene. (Il medico, citato in giudizio, è stato poi assolto, a marzo).

Che cosa possono aspettarsi le donne dal nuovo Parlamento egiziano, controllato da uomini rimasti fermi al VII secolo dopo Cristo? Un quarto dei seggi è in mano ai salafiti, gente convinta che l'imitazione pedissequa degli usi e costumi dell'epoca del profeta Maometto sia una ricetta appropriata per la vita moderna. L'autunno scorso, sui manifesti elettorali i salafiti del partito al-Nūr hanno sostituito i volti delle proprie candidate con un fiore. Le donne non devono essere né guardate né ascoltate (persino le loro voci possono indurre in tentazione) e quindi eccole là nel Parlamento egiziano, coperte dalla testa ai piedi e senza mai spiccicare parola.

E pensare che siamo nel mezzo di una rivoluzione! È una rivoluzione in cui ci sono state donne che hanno perso la vita, donne che sono state picchiate, donne a cui hanno sparato addosso, donne che hanno subito aggressioni sessuali mentre lottavano insieme agli uomini per liberare il nostro Paese da quel Patriarca con la "p" maiuscola che era Mubarak: ma tanti altri patriarchi con la "p" minuscola continuano a opprimerci. I Fratelli musulmani, che detengono quasi la metà dei seggi nel nuovo Parlamento rivoluzionario, non ritengono possibile che una donna (o un cristiano) possa essere presidente. La donna che guida il "Comitato femminile" del braccio politico dei Fratelli musulmani ha dichiarato di recente che le esponenti del gentil sesso non dovrebbero partecipare alle manifestazioni, perché è più "dignitoso" lasciare che mariti e fratelli scendano in piazza al posto loro.

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