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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2012 alle ore 08:45.

illustrazioni di Olimpia Zagnoliillustrazioni di Olimpia Zagnoli

Nella società egiziana l'odio contro le donne ha radici profonde. Quelle di noi che sono scese in piazza a manifestare hanno dovuto destreggiarsi fra un campo minato di aggressioni sessuali, sia da parte del regime e dei suoi lacchè, sia, ahimè, da parte in certi casi dei nostri stessi compagni di lotta. Quel giorno di novembre in cui sono stata aggredita sessualmente da almeno quattro poliziotti antisommossa in via Mohamed Mahmoud, vicino a piazza Tahrir, ero già stata palpeggiata in precedenza da un uomo, proprio in quella piazza. Mentre siamo impazienti di denunciare le aggressioni perpetrate dal regime, quando sono i nostri stessi concittadini a molestarci pensiamo subito che siano agenti infiltrati del potere o delinquenti comuni, perché non vogliamo infangare la rivoluzione.

Che cosa dobbiamo fare?
Per prima cosa dobbiamo smetterla di far finta di niente e chiamare l'odio con il suo vero nome. Respingere il relativismo culturale, con la consapevolezza che anche in un Paese dove è in corso una rivoluzione o una sollevazione le donne rimarranno la merce di scambio più sacrificabile. A voi – il mondo esterno – diranno che è la nostra "cultura" e la nostra "religione" fare la cosa X, Y o Z alle donne. Ma badate bene che a sostenere questa teoria non è mai una donna. È stato un uomo arabo (Mohamed Bouazizi, l'ambulante tunisino che si diede fuoco per disperazione) ad accendere le rivolte, ma saranno le donne arabe a portarle a termine. Amina Filali, la sedicenne marocchina che ha ingerito del veleno dopo essere stata costretta a sposare l'uomo che l'aveva violentata, e che la picchiava, è la nostra Bouazizi. Salwa el-Husseini, la prima donna egiziana a raccontare in pubblico dei "test di verginità", Samira Ibrahim, la prima a ricorrere in tribunale contro questi test, e Rasha Abdel Rahman che ha testimoniato insieme a lei, sono le nostre Bouazizi. Non dobbiamo aspettare che muoiano perché diventino tali. Manal al-Sharif, che ha passato nove giorni in prigione per aver infranto il divieto di guidare imposto alle donne saudite, è la Bouazizi dell'Arabia Saudita: è una rivoluzionaria solitaria, che lotta contro un oceano di misoginia. Le nostre rivoluzioni politiche non avranno successo finché non saranno accompagnate da rivoluzioni del pensiero: rivoluzioni sociali, sessuali e culturali capaci di abbattere i Mubarak nella nostra testa e nel nostro letto.

«Lo sai perché ci hanno sottoposte al "test di verginità"?», mi ha chiesto Samira Ibrahim l'8 marzo, dopo che avevamo marciato insieme per ore, al Cairo, per celebrare la Festa della donna. «Vogliono imporci il silenzio, vogliono rispedire le donna a casa. Ma noi da qui non ci muoviamo». Siamo qualcosa di più di un velo e di un imene. Date ascolto a quelle di noi che lottano. Date risonanza alle voci della regione, reagite all'odio. C'è stato un tempo, in Egitto e in Tunisia, in cui essere islamisti voleva dire correre rischi gravissimi, politicamente. Oggi probabilmente i rischi maggiori li corri se sei donna. Come è sempre stato.

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