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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2012 alle ore 08:43.

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Adesso non c'è più niente, prima invece c'era tutto. Qualche tempo fa vivevo ancora nel posto dove sono nato, Saronno, una cittadina in provincia di Varese ma così vicina a Milano da esserne un'appendice. Una delle ultime cose che ho fatto prima di trasferirmi è stato mettere la macchina fotografica nella borsa, una domenica, prendere la bici, scavalcare una recinzione e infilarmi in una crepa del muro di una delle più grandi aziende scomparse della mia zona: l'Isotta Fraschini.

All'Isotta Fraschini facevano macchine di lusso, e ci lavoravano come operai qualificati i papà di alcuni miei compagni delle elementari: allora io ero piccolo ma mi ricordo, a metà degli anni 80, mia mamma che parlottava con un'altra mamma fuori dalla scuola, mi ricordo la signora che diceva qualcosa tipo «Li lasciano tutti a casa».

Sono entrato all'Isotta Fraschini da solo, quella domenica, con la consapevolezza di fare qualcosa di illegale e che, in qualche modo, non mi compete: non ho quasi mai fatto foto nella mia vita, nemmeno in vacanza. Non mi piace, la macchina fotografica mi pesa: ma quando ho visto la recinzione e ho sentito il rumore delle ruspe, quando ho visto che cominciavano a buttare giù dei muri e ho sentito dire che nell'area progettavano di fare un parcheggio e un hotel a quattro stelle, ho pensato che in qualche modo dovevo a me stesso e ai miei ex compagni di classe quella piccola esplorazione clandestina. Così sono entrato, mi sono messo a girare per i capannoni svuotati, pieni di mucchi di sabbia e ruggine e muffa e vegetazione spontanea. Ho fotografato tutto quello che potevo: i reparti abbandonati, i bagni sfondati, i cavi elettrici scoperti. Sono entrato negli uffici dell'amministrazione, dove adesso c'erano cumuli di spazzatura, sedie rotte, vecchi faldoni abbandonati per terra e un odore esotico, caldo: una famiglia di nordafricani si era insediata in un vecchio ufficio nell'ala più remota e ci viveva, senza acqua e riscaldamento; stavano cucinando su un fornelletto da campo. Quando mi hanno visto, ho chiesto scusa, ho messo via la macchina fotografica e me ne sono andato.

Da qualche parte ho la foto di una scritta che il tempo non ha cancellato. È tracciata con il gesso e dice: Reparto rabbia. A Saronno i vecchi guardano le grandi aree dismesse e si incupiscono, ricordano quello che c'era e non c'è più. L'Isotta Fraschini, infatti, non è un caso isolato: in un paese di nemmeno 40.000 abitanti negli ultimi trent'anni sono morte, se ne sono andate o hanno trasferito la produzione altrove la Lazzaroni (quella dei biscotti), l'ILLVA (quella dell'Amaretto), la Lesa, il grande cotonificio Cantoni. L'Isotta Fraschini è però per me un simbolo: lo è perché è stata fondata nel 1900, e a suo modo è stata una testimone del secolo; lo è perché ci sono stato. Da qui passava idealmente un cateto di quel Triangolo industriale in cui mi hanno detto che sono nato: c'era Milano, c'era Torino con la Fiat, c'era il porto di Genova. C'era ciò che è sempre stato considerato la "vera" Italia industriale. Dentro al Triangolo c'erano tutte quelle piccole e medie imprese che a scuola chiamavamo l'indotto, e la cui esistenza era garantita dal lavoro per la grande industria. Mi hanno sempre insegnato che, con il sud della Gran Bretagna, l'Île-de-France, la Baviera e la Catalogna, il posto dove sono nato era uno degli epicentri produttivi dell'Europa. Prima c'era tutto, insomma, e adesso non c'è più niente: solo un po' di archeologia industriale, i parcheggi, qualche albergo dove passano una o due notti i manager stranieri che transitano per Milano e vanno a dormire in periferia.

Ho fatto un elenco dei nomi e delle definizioni con cui, negli ultimi trent'anni, si è tentato di classificare il Nord Italia e dunque anche la parte del Paese da cui provengo: Triangolo, Nord-Ovest, Limonte, Mi-To, Lombardo-Veneto, Piattaforma Alpina, Nord-Est, Padania. Sono tutti nomi inventati, che seguono un flusso economico o una prospettiva o un auspicio. Al buio, ho messo un cursore luminoso su una cartina del Nord, e ho cominciato a spostare la luce sulle aree geografiche identificate da quei nomi: si comincia da Milano – si comincia sempre da Milano – e si va verso ovest, si guarda alla Francia; poi si torna a Milano – a Milano si torna sempre –, si sfiorano le Alpi verso la Svizzera e si finisce a Treviso, a Rovigo, nel regno delle piccole imprese che si rivolge al mondo tedesco. Ho continuato a fluttuare da un'area all'altra, immaginando quante delle grandi mitologie industriali siano ancora effettivamente vive. Non ne ho quasi trovate: la Parmalat, l'Ansaldo, l'Olivetti… tutto è fermo. Anche la Fiat, l'ultima grande industria, barcolla e minaccia di andarsene da Torino.

Eppure questo è il posto, in Italia, dove tutto nasce. Le grandi imprese, i politecnici più all'avanguardia, le università, i centri di ricerca. È qui, nel Triangolo, che trent'anni fa sono partite quelle mutazioni strutturali che hanno modificato l'assetto del Nord e hanno provato a proiettare l'Italia in una dimensione internazionale: qui sono nati i distretti industriali, da qui sono partiti i processi di bancarizzazione, qui, soprattutto in Lombardia, si è sviluppato il sistema misto che ha nelle Fondazioni bancarie il suo centro (una cosa che dico spesso è che la Lombardia è un sistema basato sulla Fondazione Cariplo) e qui, ancora, si concentra il maggior numero di brevetti depositati a livello nazionale. Federico Butera, presidente della Fondazione IRSO, in una ricerca del 2010 che ha significativamente intitolato Innovazione senza sistemi, ha mostrato come dal 1999 al 2006 l'82% dei brevetti italiani sia stato frutto di iniziative nate nel Nord. L'87% di marchi e brevetti depositati provengono dalle imprese, il resto – una miseria – da università e centri di ricerca. In questo campo l'Italia è al quarto posto nella classifica mondiale, dove precede Giappone e Francia. Il paradosso sta nel fatto che tra tutti i Paesi sviluppati l'Italia è quello che investe meno in Ricerca e sviluppo. È per questo che Butera parla di innovazione senza sistemi: l'Italia è in grado di produrre innovazione, ma non possiede una visione e una governance dei processi innovativi; nessuno a livello pubblico investe in quella che pare una delle risorse del Nord, e la formazione e il credito sono scarsi. La politica e la ricerca non si incontrano: la ricerca ha bisogno di tempi più lunghi di una legislatura, ha un ritmo lento e un'incidenza d'errore che la politica non si vuole permettere.

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