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Questo articolo è stato pubblicato il 16 luglio 2012 alle ore 22:02.

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Davvero un anno infame per la musica degli anni Settanta questo 2012: muore anche Jon Lord, virtuoso dell'organo hammond, performer di formazione classica e attitudine psichedelica, grande anima dei Deep Purple, la band britannica che quaranta anni fa mise l'aggettivo «hard» davanti al termine rock. Ad agosto dell'anno scorso aveva dichiarato di essere affetto da cancro al pancreas, un'embolia polmonare se l'è portato via quest'oggi all'età di 71 anni mentre era ricoverato alla London Clinic. O meglio, per usare l'intonazione mistica del suo sito web ufficiale: «Jon passa dal buio alla luce». Una frase ermetica dentro la quale rivedi l'intera parabola artistica di questo elfo baffuto dal sound inconfondibile.

Lord veniva da Leicester, profonda provincia inglese, come molte altre icone musicali della sua generazione ma, al contrario dei più, aveva studiato lo strumento: figlio d'arte, lezioni di piano sin dall'infanzia, a 19 anni l'iscrizione al Royal College of Music di Londra. Mentre John Lennon si faceva le ossa sul repertorio di Buddy Holly ad Amburgo e Keith Richards scimmiottava Chuck Berry a Richmond, lui studiava Johan Sebastian Bach. Tuttavia, da persona intelligente e di buone letture, era privo di pregiudizi. Prima prova col jazz, ma prova una certa insofferenza verso lo snob style dei club in cui si suona la musica classica nera. La scena pop invece lo incuriosisce eccome: nei primi anni Sessanta entra negli Artwoods, band del fratello del futuro Rolling Stone Ronnie Wood. Ci incide un disco ma non si ferma lì. Sperimenta quando può e con chi può poi, per sbarcare il lunario, lavora da session man e arrangiatore (nel curriculum ci finisce pure una collaborazione con i primi Kinks).

L'anno che gli cambia la vita è il 1967, lo stesso di «Sgt. Pepper» e della prima Summer of Love: insieme con il bassista Nick Simper e il chitarrista Ritchie Blackmore, Lord dà vita al primo nucleo di quelli che diventeranno i Deep Purple. L'esordio discografico arriverà un anno più tardi: quello «Shades of Deep Purple» meravigliosamente acerbo, nel quale il primo quintetto profondo porpora, con la voce di Rod Evans, proprio grazie all'organo di Jon trasforma il beat in qualcosa di diverso (vedi alla voce «Hush»). A volte tetro e crepuscolare, altre esplosivo. La band cerca uno stile originale, naviga in acque psichedeliche con virtuosismi che sono merce rara per l'epoca e consuma il suo apprendistato alla scuola compositiva di Lennon e McCartney (celebri le cover di «Help» e «We can work it out»).

Dopo tre album di ricerca, il quarto è una pietra miliare: «Deep Purple in Rock», quello con le cinque facce dei nuovi membri della band (accanto a Lord, Blackmore e Ian Paice alla batteria presenti fin dagli esordi ci sono Ian Gillan alla voce e Roger Glover al basso) scolpite nella roccia come i presidenti americani che hanno fatto la storia a Mount Rushmore. Un album da incorniciare in cui Lord sale in cattedra, dettando tempi e atmosfere di ogni canzone: da «Speed King» che esalta l'immaginario rock delle origini con sonorità taglienti e dissonanti che stanno nel contemporaneo all'inquietante «Bloodsucker» da cui qualsiasi band metal dovrebbe prendere appunti, fino a «Child in Time». È quest'ultima probabilmente il vero capolavoro di Lord, il pezzo che ne esalta al massimo capacità esecutiva e spregiudicatezza di ricerca. Provate voi ad ascoltarla a commento delle immagini de «Le onde del destino» di Lars von Trier senza versare una lacrima.

Se «In Rock» è il disco dell'esplosione, quelli che seguono confermano la grandezza del gruppo britannico che contende ai contemporanei Led Zeppelin la palma di più grande hard rock band di tutti i tempi. «Fireball» è una massa di incandescente follia, «Machine Head» molto di più del successo della hit «Smoke on the water», «Who do you think we are» un disco sofisticato e spesso sottovalutato. Persino il live divenne arte in mano a loro: pochi dischi dal vivo vantano la completezza di «Made in Japan». Dei Purple Lord ha fatto parte fino al 2002, resistendo a innumerevoli cambi di line-up, infilando sedici album in studio (l'ultimo è «Abandon» del ‘98) e addirittura 26 live. Ha partecipato anche allo spin off dei Whitesnake, gruppo creato dal vocalist David Coverdale per fare un dispetto a Blackmore.

Da solista ha registrato ben sette album pieni di acrobazie strumentali. Nessun timore di strafare. Non poteva averne chi è stato il primo ad attaccare un amplificatore Marshall per chitarra all'organo Hammond, ricavandone un suono molto più tagliente di quello di qualsiasi altro collega. Semplicemente il suono dell'organo «in rock».

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