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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2012 alle ore 20:46.

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«Voglio dire una cosa che forse qualcuno potrebbe equivocare: non mi piace il jazz com'è oggi. Non mi piace la cosa in cui il jazz è stato trasformato. È una roba accademica, pensata per tenere in esercizio i critici, molto diverso dalle cose che suonavo io negli anni Settanta, dalla musica di Don Cherry». Poi però per fortuna ci sono le eccezioni: «Garbarek è una di quelle. Grande artista e persona autentica, suoniamo insieme da tempo e continuiamo a divertirci un sacco». Trilok Gurtu, il più celebre percussionista indiano in circolazione, parla esattamente come suona: senza schemi precostituiti, asseconda il ritmo della conversazione, improvvisa, tira colpi che nemmeno ti aspetti. Parla come suona e come mangia, perché appena può tira fuori suggestive metafore gastronomiche che colgono nel segno: «Cucina e musica sono le mie due grandi passioni. Un grande musicista a conti fatti è un po' come un cuoco. Dobbiamo dosare i materiali che abbiamo, sposarli insieme anche se apparentemente non si incontrerebbero».

È di nuovo in Italia, proprio con l'astro norvegese del sax Jan Garbarek, profeta di quello che qualcuno definisce ambient jazz. Prima a Stresa (20 luglio), poi al Ravello Festival (21) con il tastierista tedesco Rainer Brüninghaus e il bassista brasiliano Yuri Daniel. A prendersi gli applausi di un pubblico con il quale «esiste un feeling particolare. Gli italiani capiscono e apprezzano il nostro approccio al jazz. Ci si intende. Tutto qui».

Anche la vostra intesa sul palco suona molto particolare. Esiste un metodo di lavoro Garbarek-Gurtu?
Se esiste, è più facile metterlo in pratica che raccontarlo. Diciamo che si parte dai pezzi di Jan, ma un buon 90% di quello che si ascolta in platea è improvvisazione. L'ambizione nostra è non offrire mai lo stesso spettacolo per due sere di fila. Messa così, può sembrare anche una cosa poco originale perché il jazz è l'arte dell'improvvisazione. Ma è esattamente quello che ci sforziamo di far accadere.

L'etichetta che spesso si utilizza per descrivere questo approccio è ambient jazz. Ci si riconosce?
Non sento l'esigenza di utilizzare termini come ambient jazz, world music o quello che sia. Il punto di vista di un musicista che improvvisa è molto diverso da quello di chi scrive di musica. Solo se racconti, hai necessità di descrivere o di etichettare. Quanto a ciò che Jan e io facciamo, userei molto più semplicemente l'espressione: condividere esperienze. Come quando si cucina. Metti insieme spezie di Paesi lontani, provi a tirare fuori sapori diversi. Magari ti esce fuori la ricetta napoletana del pesce all'acqua pazza. Così è quando suoniamo. Ciascuno ha la sua esperienza. Jan ha uno straordinario senso per la melodia. Contano molto le sue origini scandinave. Brüninghaus alle tastiere ha una tecnica eccezionale. Daniel è brasiliano, quando suona il basso gli chiedo sempre di metterci dentro un po' di bossa nova, un po' di fado, un po' di cultura portoghese. A volte però mi risponde che a lui piace troppo il jazz.

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