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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2012 alle ore 20:25.
Quando un film merita, il Festival di Locarno non soffre di gelosia. Non ha l'ossessione dell'anteprima mondiale, specialmente se si tratta di mostrare un piccolo capolavoro in Piazza Grande. Questo è il caso di No, quasi due ore di Storia raccontata dalla parte di chi è stato dimenticato ma decisivo. René Saavedra non è finito nei libri, ma ha contribuito con le sue armi, quelle dell'intuizione e di una geniale competenza nel campo della comunicazione a far crollare uno dei regimi più crudeli che il Sud America abbia avuto: quello di Augusto Pinochet, in Cile.
Nel 1988, costretto dalle pressioni della comunità internazionale, il dittatore, che nel 1973 aveva, con un golpe infame, destituito il governo democratico di Salvador Allende, indice un plebiscito: il Sì porterà ad altri otto anni di potere del generale, il No riporterà la nazione alla libertà.
Pochi, in quel Cile martoriato da torture e segnato dalle migliaia di desaparecidos, decimato da esili, epurazioni e violenze di Stato, credono nella vittoria del No. La sinistra ha 17 partiti e pensa più a informare l'opinione pubblica che a provare a vincere, tanti sono gli oppositori che preferiscono la piazza alla campagna referendaria, sicuri che sia solo una legittimazione di un regime che truccherà i risultati. Per spezzare questo incubo uno dei dirigenti socialisti chiede aiuto a un ragazzo che ha visto crescere, figlio di un oppositore che ha pagato carissimo il suo anelito di libertà ma ora ben inserito nella società del suo paese. Renè Saavedra, questo è il suo nome, ha una macchina sportiva, una casa di proprietà ed è un pubblicitario di gran successo. Ma in lui scatta qualcosa, e si getta mani e piedi nella causa persa.
Ci voleva uno come Pablo Larraìn, forse il miglior cineasta sudamericano degli ultimi anni, per raccontare una storia umana straordinaria incastonata in una svolta epocale. Dopo l'interessante Tony Manero e il bellissimo Post Mortem, chiude la sua trilogia "dedicata" a Pinochet arruolando un pezzo da novanta come Gael Garcìa Bernal e mettendo il suo attore feticcio, l'eccezionale Alfredo Castro, nella parte di un antagonista arguto, spregiudicato e disincantato. Con la sua abilità alla regia- è un cineasta che fa anche l'operatore, e si vede: ogni sequenza è una pennellata- e una tensione narrativa serratissima, viviamo la cavalcata di meno di un mese verso l'impresa impossibile. Saavedra si inventa una campagna in cui la gioia, i colori, l'ironia devono raccontare il dolore, la rabbia, la paura di quasi vent'anni. Solo contro tutti, persino i suoi che lo accusano d'essere superficiale e cinico, teso a fare spot e non politica. Solo il suo avversario capisce che sta portando a casa il colpo perfetto, Renè persino addosso all'uomo che l'ha sostituito nel cuore della moglie scopre la maglietta con l'arcobaleno e il No, la sua firma. Cinema politico di alto livello, questo, ma soprattutto cinema. Fin da quell'estetica antica, da quello "sgranato" che ci riporta alla fine degli anni '80, quando il mondo come lo conoscevamo dal dopoguerra stava crollando e nessuno, forse, lo riusciva davvero a capire. E gli applausi a scena aperta a Bernal, che in questo 65° Festival di Locarno ha anche ritirato l'Excellence Award Moët & Chandon, sono meritati. Per un film che alla Quinzain des realisateurs, a Cannes, aveva fatto entusiasmare uno dei pubblici più ostici d'Europa, e che ora ha conquistato anche Locarno, altrettanto esigente.
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