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Questo articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2012 alle ore 08:16.

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Per un filosofo essere dichiarato «di tutti principe e maestro», tanto «da meritare di essere stimato singolare presidio e onore della Chiesa Cattolica» (Leone XIII, Enciclica Aeterni Patris, 1879), può costituire una disgrazia, peggio ancora dell'essere proclamato santo (1323) a meno di cinquant'anni dalla morte (1274) e Dottore della Chiesa neanche tre secoli dopo (1567). Se alla sua morte Tommaso d'Aquino fu osteggiato "solo" da qualche vescovo che lo confuse per un averroista (e ne condannò alcune tesi, per mezzo secolo giacenti nel limbo dell'interdizione), da qualche francescano e addirittura da qualche domenicano, più la sua dottrina diventava ufficialmente "cattolica", più veniva aggredita da due lati. Ovvero dagli avversari del Cattolicesimo, per esempio Lutero; e dai cattolici stessi, per secoli intenti a spiegare e commentare ed emendare le già chiarissime pagine del Doctor Angelicus, con una profusione di summae della Summa che culmina nelle 24 tesi proposte dalla Chiesa nel 1914 come non discutibili. Da queste tesi un neotomismo che tra l'altro non considera apofatica (indicibile, non definitivamente comprensibile) l'identità tra Dio ed essere, ma la propone come elemento di teologia positiva, dove l'atto di essere è attualità di ogni atto. Ogni riferimento al platonismo di Tommaso, ai suoi legami con Avicenna e il neoplatonico Liber de causis, viene completamente a cadere, e si debbono ringraziare studiosi come Anthony Kenny (si veda il suo articolo di Domenica 5 agosto) per aver sottolineato che «l'essere si dice in molti modi», non è solo della metafisica aristotelica, ma anche dell'opera tommasiana (Kenny ne conta 18, di modi).
Come ha fatto un filosofo analitico a comprendere questo approccio all'essere? Leggendo le opere di Tommaso, si suppone. Ma di nuovo la necessità di dare etichette, stabilire steccati: "tomismo analitico", e con questo molti altri aggettivi e prefissi che la storia ha consegnato. Chissà se aveva previsto un esito così lungo e complesso delle sue opere, questo domenicano obeso e precoce, che scrisse migliaia di pagine finché, proprio nell'età che dovrebbe vedere il fiorire della maturità intellettuale, intorno ai cinquant'anni, interruppe ogni dettatura, si chiuse in un silenzio mistico o malato, perché in confronto a ciò che aveva "visto", tutte le sue opere gli sembravano "paglia" che brucia al primo fuoco. E lasciò incompiuta la più famosa, la Somma della Teologia.
Si contano sulle dita di una mano forse i viventi che hanno letto tutte le opere di Tommaso, mentre non bastano i grani della spiaggia di Rimini per contare quanti lo hanno "manualizzato". Per nostra fortuna esistono la Commissione Leonina che da decenni lavora alla definizione corretta dei testi tramandati, ora guidata a Parigi dal domenicano Adriano Oliva, e qualche storico particolarmente severo con se stesso. Parole che definiscono bene Pasquale Porro, autore di una attesa monografia su Tommaso (finora si doveva ricorrere infine al testo della Vanni Rovighi per Laterza, del 1973, oppure alle pur corrette opere di Weisheipl del 1974 e di Torrell del 2002, già tradotte in italiano), che non risparmia al lettore nessuna pagina, nessun ragionamento, nessun colpo di genio e nessuna aporia del frate domenicano, secondo un andamento storico-filosofico garanzia di scientificità (perché documentato e documentabile) più di estrapolazioni e interpretazioni.
Il fine dell'opera è quello di distinguere Tommaso dai tomismi, attraverso un confronto con i suoi testi. Se Tommaso non temeva la ragione (come si sarebbe mai potuta porre contro Dio una delle sue più perfette creature?), né la filosofia (fino alla fine dei suoi giorni studiò opere filosofiche di Aristotele, e non solo la Metafisica, ma anche la Meteorologia), così Porro, con quello stesso ottimismo di cui la modernità non potrà che sorridere tristemente, percorre la vita e gli scritti (tanti) dell'aquinate e sinteticamente li illustra, senza nessuna disperata ricerca di concordanze né sistematicità. Che d'altra parte non interessavano a Tommaso, intento a scrivere per rispondere a un dubbio altrui (per un terzo delle sue opere), per risolvere un problema filosofico, per tendere al massimo le capacità intellettuali nello studio della teologia, un tema alla volta, ripetuto anche più volte. O semplicemente per tenere una lezione o dirigere un articolato dibattito, come si potrebbero definire le quaestiones.
Per conoscere e capire Tommaso bisogna insomma mettersi a dorso di mulo (non siamo domenicani e quindi non siamo costretti ad andare a piedi) e partire da Roccasecca, nella contea d'Aquino vicino a Napoli, intorno al 1225 (o 24 o 21, poco importa). Seguire un bambino destinato alla carriera di abate appassionarsi agli studi, frequentare adolescente l'Università napoletana voluta dallo stesso Federico II che aveva cacciato tutti i frati, tranne due domenicani; incontrare proprio i domenicani e decidere di appartenere a un ordine in cui si studia molto e si è del tutto poveri. Superate le difficoltà famigliari – oggetto di leggenda – poco più che ventenne Tommaso ascolta Alberto Magno a Parigi e poi lo segue a Colonia, poi torna a Parigi dove diventa "ordinario" (magister). Ha da poco compiuto i trent'anni e ha scritto una decina di opere, tra le quali l'opuscolo L'ente e l'essenza, un lavoro sul lessico metafisico che molto attinge da Avicenna, il medico arabo commentatore di Aristotele. Ente ed essenza sono concetti primi del nostro intelletto: l'ente può essere inteso in senso logico o reale, e solo questo secondo possiede un'essenza o quidditas, che è ciò che gli permette di essere quello che è, quindi di rispondere alla domanda quid est? La distinzione tra piano logico e piano reale è sempre presente nell'opera tommasiana (è brutto, questo aggettivo, ma permette una presa di distanza dai tomismi): non sarà affatto gradita dalla modernità e spesso del tutto rifiutata, si pensi all'ermeneutica che intende il reale come un unico testo continuamente detto o giocato da chi vi si trova. Ma torniamo al maestro che ancora ci porta a Orvieto, Roma, Parigi (dove un docente poteva stare in cattedra solo pochi anni, per evitare lo strapotere e fare spazio ai più giovani. Come oggi), Napoli.

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