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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2012 alle ore 08:20.

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Agosto 2011. Tra le isole Egadi e la costa siciliana, la nave da ricerca americana Hercules, dotata di impianti che solo pochi anni fa sarebbero stati definiti fantascientifici, è impegnata in una ennesima stagione di lavoro in queste acque. Calati in mare due robot subacquei attrezzati per operare in profondità, si esplora la zona dove duemiladuecento anni fa si combatté una cruenta battaglia tra la flotta romana e quella cartaginese. Nel laboratorio di controllo e registrazione a bordo della Hercules, i dati trasmessi dal fondo vengono via via analizzati dai responsabili scientifici della rpm Nautical Foundation, George E. Robb jr e Jeffrey G. Royal. Con loro, l'archeologo Sebastiano Tusa, sovrintendente dei Beni culturali di Trapani. Insieme, guidano gli spostamenti dei mezzi in azione per individuare e portare alla luce reperti sparsi sul fondale di sabbia. Saranno ulteriori prove del maggiore scontro navale dell'antichità.
Da anni navigo e mi immergo lungo la costa siciliana, nell'azzurro profondo delle Egadi. Agli inizi degli anni Settanta, fui all'isola di Favignana per fotografare e filmare l'ultima tonnara mediterranea ancora in attività secondo regole e tempi antichi. Con Riccardo Grassetti e Vittorio Dragonetti, esperti operatori, della tonnara documentammo i preparativi, la distesa per chilometri di reti, e l'attesa del passaggio stagionale delle prede. Poi la pesca cruenta, il sangue nella «camera della morte»; le operazioni di taglio e inscatolamento negli edifici di Favignana, al centro dell'arcipelago.
Nel villaggio turistico dove eravamo alloggiati, nelle serate dopo il lavoro si ripetevano incontri con amici amanti del mare. Come l'antropologo Pier Giovanni d'Ayala, specialista nell'analizzare quanto via via stavamo filmando, e Vincenzo Paladino, un subacqueo, allora tra i più conosciuti ed esperti di Sicilia. Con lui si parlava di tonnare e tonnaroti ma anche del mondo sottomarino di quelle isole e delle sorprese che riservava. Paladino mi aveva sentito raccontare di un'esperienza in Sardegna, di alcune mie riprese subacquee tra colonne marmoree e anfore perdute a Capo Testa da chissà quale barca del tempo antico. Da quelle mie parole, lui prese spunto per darmi un consiglio: «In questi fondali, se sei fortunato, potresti trovare qualche reperto particolarmente interessante... non solo pezzi di anfore ma resti d'una battaglia navale tra romani e cartaginesi. Se ti immergi lungo la costa dell'isola qui di fronte a Levanzo e cerchi con attenzione tra sabbia e alghe, potrebbe capitarti sotto il naso un ceppo d'ancora di quell'età». Lui ne aveva già trovato qualcuno.
La ricerca nei fondali di Levanzo cominciò a impegnare, da allora, molti subacquei esperti. A volte mi aggregai a loro perlustrando insieme aree sopravento e sottovento dell'isola, muovendo tra praterie di posidonie e tratti sabbiosi. Com'era riuscito a Paladino, speravamo anche noi di riportare in superficie le superstiti parti metalliche di un'ancora antica. Avrebbero dovuto essercene parecchie in quel fondale, stando al numero di navi impegnate nella battaglia narrata dagli storici di allora, che descrissero l'audace manovra tattica dei romani in un giorno di marzo di ventidue secoli prima, quando ebbero la meglio sulla flotta cartaginese: scontro tra centinaia di navi, mosse dal vento, alcune con tre file sovrapposte di rematori capaci di imprimere velocità a scafi carichi di fanti, arcieri, addetti al governo della vela. Se la flotta cartaginese venne vinta, il merito fu del comandante romano Gaio Lutazio Catulo, e alla sua decisione di attaccare sfruttando il vantaggio della sorpresa. Malgrado il vento sfavorevole, impartì l'ordine di non perder tempo a salpare le ancore ma tagliare a colpi di ascia le cime che le trattenevano. E muovere in fretta all'attacco. Decisione vincente: subito in mare aperto, la flotta romana non lasciò il tempo a quella cartaginese di disporsi in ordinato schieramento di battaglia. E la vinse. «I cartaginesi, visto che i romani tagliavano loro il passaggio, ammainarono le vele e, levando grida di incoraggiamento da nave a nave, cozzarono contro i nemici», scrisse Polibio nel II secolo a.C. «I marinai romani, esercitati a movimenti concordi, prestavano un servizio eccellente. I soldati imbarcati, scelti fra i più sicuri della fanteria. Presso i cartaginesi era avvenuto invece il contrario: sulle navi a pieno carico, in condizioni del tutto inadatte alla battaglia, marinai nel complesso impreparati dimostrarono la loro inferiorità ... Non appena fu ingaggiata la battaglia, furono messi fuori combattimento». Aggiunse lo storico Eutropio nel III secolo d.C.: «Delle navi cartaginesi, sessantatré furono catturate e centoventicinque affondate. Trentaduemila nemici vennero fatti prigionieri, tredicimila uccisi e un'immensa quantità d'oro, d'argento e altro bottino cadde nelle mani dei romani. Della loro flotta solo dodici navi furono affondate».
In questi ultimi decenni, ricercatori ormai professionisti, coadiuvati da attrezzature sempre più avveniristiche, hanno approfondito di stagione in stagione le ricerche nel mare ove si combatté quella battaglia. Un crescente numero di ceppi d'ancora romani sono stati portati in superficie. Ma d'altri reperti, come quell'arma vincente detta rostro, non se ne era trovato nemmeno uno. Della loro importanza mi aveva parlato l'archeologo francese Georges Vallet, allora direttore dell'École française de Rome e mia guida in Sicilia quando, agli inizi degli anni Settanta, mi stavo impegnando per un libro e una serie di film in coproduzione europea sul Mediterraneo. Tra i tanti consigli, Vallet mi disse di non dimenticare di mostrare la forma dell'importante arma impiegata nelle battaglie tra romani e cartaginesi: «Il rostro, sorta di arma segreta e invisibile, veniva montato sulle prue di navi da combattimento come testa d'ariete, per sfondare la fiancata di navi avversarie... Se vuoi raccontare chiaramente quello scontro tra cartaginesi e romani, dovrai mostrare al tuo pubblico un rostro della flotta di Roma». «In quale museo archeologico posso filmarne uno?», chiesi, dando prova della mia scarsa preparazione in merito. «Non ne esistono», sospirò Vallet. «Non ne è stato mai trovato alcun esemplare. Posso però darti un suggerimento, a Roma vai con il tuo operatore a Piazza del Popolo: tra le varie fantasie immaginate nel Settecento per arricchire la scenografia del luogo, l'architetto Valadier, tutt'attorno alle gradinate fece erigere colonne marmoree che sostengono riproduzioni in bronzo del rostro navale romano». Seguii il suggerimento, non scesi a testa bassa verso un fondale delle Egadi con una cinepresa tra le mani, ma filmai i rostri nel particolare fondale cittadino consigliatomi da Vallet.

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