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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2012 alle ore 17:55.

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Winona RyderWinona Ryder

Seppur in un inizio stentato- nessuno dei primi film ha entusiasmato, speriamo che questo festival sia un diesel- si può già intuire quanto la Mostra quest'anno punti selle emozioni primarie, sui punti di svolta delle vite di ognuno di noi.

Amore e morte li troviamo in concorso con Betrayal di Kirill Serebrennikov, un indagine psico-sentimentale all'interno della passione carnale e delle perversioni mentali di uomini e donne che cercano l'impossibile. Non solo amore, né tantomeno solo sesso, ma un mood inspiegabile e spesso indecifrabile che porta i protagonisti nel vicolo cieco delle loro insoddisfazioni. Una sfida troppo difficile, forse, per essere vinta, dal momento che l'opera di Serebrennikov appare subito troppo ambiziosa e pretenziosa. E in fondo, a parlarci chiaro, si capisce fin dalla confessione iniziale dei due traditi, moglie e marito dei fedifraghi, che altro non è che un Mimì metallurgico in salsa russa che si prende troppo sul serio.

Si comincia bene, con un doppio intervento a gamba tesa del regista sullo spettatore- prima la visita cardiaca che si allarga a tutti gli affari di cuore, poi l'incidente alla fermata dell'autobus (bello il piano sequenza)- si prosegue in un clima di autorialismo che guarda al classico e si sforza d'essere anticonformista, con un ammiccamento ai grandi classici, soprattutto russi (più letterari, forse, che cinematografici) e la voglia, come già fatto decisamente meglio in Playing the victim, di andare oltre (un po' sulla scia del Silent Souls di Fedorchenko).

Purtroppo, a vincere, è la noia, per una storia che immediatamente si arrotola su se stessa, nonostante un paio di colpi di scena. Forse perché quelli interessanti da indagare, fin dall'inizio, sono piuttosto i traditori. In particolare Albina Dzhanabaeva, bellissima e brava nel tenerci sulle spine fino all'ultimo: nega in maniera molto maschile, ha carisma, dolcezza e grande sex appeal.
Serebrennikov cede quasi subito alla voglia di sgattaiolare dai momenti cruciali con metafore elementari, a volte quasi umoristiche (vedi, ad esempio, l'appuntamento di routine degli amanti sotto una testa di cervo) altre troppo elementari (il vento che spazza via dolore e pentimento), non sembra aver la forza e la voglia di essere all'altezza dei sentimenti che mette in campo e con lui i due attori nella parte di un uomo e una donna senza qualità. Avrebbe potuto, il regista, sopperire con alcuni comprimari- Guna Zarina, ad esempio, poco e male utilizzata- e con qualche rischio in più. Invece reitera, fino alla noia, il modello iniziale fino a che l'ultima svolta ti coglie esausto.

Decisamente diverso, invece, The Iceman di Ariel Vromen, cineasta israeliano. Un classico del thriller-noir, che in parte scimmiotta Fincher e l'ultimo Cronenberg, raccontandoci la storia vera di Richard Kuklinski, sicario implacabile dall'apparenza rispettabile. Tra la fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '80 avrebbe ucciso 250 persone (parole sue: gli omicidi accertati dalle indagini, comunque, sono almeno 100), mantenendo una famiglia ignara in una bolla borghese di felicità e serenità.

Vromen intuisce proprio questo punto e lo mette in scena, anche grazie all'inquietante normalità che sa restituire ai suoi personaggi Michael Shannon- insieme a Fassbender, attualmente, il miglior attore in circolazione-, schizofrenicamente diviso tra una violenza perpetrata con asettica efficienza e una ruvida dolcezza verso le "sue" donne (tra cui si rivede una Winona Ryder in palla). Vromen ci mostra cosa può nascondersi dietro il sogno americano, l'american way of life, e come sia facile nascondere sotto il tappeto di una agiata rispettabilità un mostro. Che noi vediamo nella sua escalation di violenza e irrazionalità, di efficacia letale e allo stesso tempo quasi burocratica.

Dice Vromen d'aver pensato anche a Scarface, ma questo assassino glaciale- The iceman è un soprannome che nasce dall'impassibilità della faccia del sicario ma anche dall'abitudine di congelare le vittime per non far risalire la polizia all'orario della morte- ha forse vene più hitchcockiane, e, verso la fine, strizza l'occhio al penultimo Michael Mann, quello di Collateral. Vromen forse non troverà guizzi geniali ma porta a casa un'opera solida come la prestanza del suo protagonista, essenziale come il suo stile omicida, affascinante come quella schizofrenia morale che racconta. E finora è proprio questo film fuori concorso a essere la cosa migliore del festival. Da applausi i cammeo di Stephen Dorff e James Franco.

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