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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2012 alle ore 08:17.

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Sembra che gli "inizi" non siano parte dell'evento storico in sé, ma nascano da interpretazioni e chiarimenti che giungono dall'esterno. È possibile che tali valutazioni siano espresse dai contemporanei stessi del l'evento e che siano il veicolo di quell'impeto nel voler generare qualcosa di nuovo che avvertiamo ancor oggi; la presa di distanza dei protagonisti del «Rinascimento» italiano dall'«oscurità del Medioevo» ne è un esempio, e gli storici fanno bene a prendere con serietà un nuovo inizio così "voluto".
Molto più spesso però la diagnosi del cambiamento storico avviene ex post, molti secoli dopo, a opera degli storici in cerca dell'"inizio", della "causa" di un determinato sviluppo, di un determinato evento. Dietro questa ricerca, come ci ha spiegato Reinhart Koselleck, c'è «una nuova visione della storia» a cui non si attribuisce più un andamento ciclico ma un movimento lineare: è facile associarvi l'idea di un progresso storico orientato a un fine, per così dire un vettore che nasce nel passato e il cui vertice indica il rispettivo presente (o una situazione che si auspichi nel futuro). Com'è noto, sono stati soprattutto gli storici del XIX secolo a individuare tali obiettivi presunti; libertà, costituzione e nazione, rappresentavano per loro alcuni degli ingredienti più significativi di una modernità prettamente occidentale.
Ciò che accade qui è altrettanto chiaro quanto problematico: gli storici viaggiano all'indietro nel passato per collocarvi dei segnali che indichino la via verso il loro presente, alla ricerca di "cause" e di "origini". Nasce in questo modo un'interpretazione teleologica del complesso processo storico, in linea di principio aperto allo sviluppo, che si orienta, si presume logicamente, a un obiettivo già definito in precedenza. In tal senso Hegel aveva collegato la Riforma all'ideale dell'uomo libero e autodeterminato, mentre per Jakob Burckhardt essa riconduceva invece all'Umanesimo italiano.
Oggi gli storici diffidano – con ragione – di questo genere di modelli esplicativi lineari, quanto delle "metanarrazioni" del XIX secolo e della loro pedagogia nazionalista spesso greve, che vedeva ad esempio in Martin Lutero il padre spirituale dell'impero tedesco del 1871. Ma anche i concetti delle scienze sociali del XX secolo sono messi alla prova, come ad esempio l'idea dominante negli anni Settanta di una modernizzazione capillare che procedeva verso un modello occidentale di società industriali a base democratica.
È evidente che il terreno essenziale per industrializzazione, democrazia e Stato nazionale venne preparato solo attorno al 1800. D'altra parte, le argomentazioni che si citano tradizionalmente a favore dell'inizio di un'«età moderna» verso il 1500 sono il Rinascimento e la Riforma, l'estendersi dell'Europa al di là dei propri confini sotto forma di espansione oltremare, il mutamento del quadro mondiale, la «rivoluzione mediatica» della stampa e lo sviluppo dello Stato moderno.
Oggi, nessuno (si spera nemmeno nelle lezioni scolastiche) assocerà più l'«inizio dell'età moderna» a un solo anno, che si tratti del 1492 o del 1517. Nella misura in cui per la ricerca storica ha acquisito maggiore importanza l'idea di processi che si evolvono nel lungo periodo, come quello di "razionalizzazione" o di "secolarizzazione", ha conquistato terreno anche quella di una trasformazione che avviene in un tempo più esteso e durante epoche di passaggio più ampie; il confronto con questo concetto e con le sue localizzazioni temporali attorno al 1500, al 1800 e al 1945 è al centro della prossima Settimana di studio organizzata dall'Istituto storico italo-germanico di Trento.
Ma, da sola, la definizione di epoche di passaggio più ampie ancora non offre che un orientamento inadeguato soprattutto tra i differenti Paesi europei, come dimostra un breve sguardo al «Quattrocento»: in Italia (sia nella prospettiva della politica della nascita degli Stati sia in quella intellettuale dell'Umanesimo) esso fa parte tradizionalmente della «storia moderna»; in quanto «tardo Medioevo» in Germania questo secolo rientra nel territorio della medievistica, che di rado traccia linee evolutive che si protraggono sin dentro il XVI secolo. Negli ultimi decenni, si è messo in discussione e in moto il familiare confine epocale tra Medioevo ed età moderna con lo sguardo a fenomeni di longue durée nella storiografia ecclesiastica e sociale. Erich Hassinger (Friburgo), partendo dalla causa reformationis della Chiesa papale, pone il «divenire dell'Europa moderna» nei secoli compresi tra il 1300 e 1600. Per Pierre Chaunu (Parigi), tra il 1250 e il 1550 un «sistema di civiltà» improntato dalla religione si trova ad affrontare la sfida degli impulsi riformistici, di cui la «Riforma di Wittemberg» è stata solo un episodio. Dietrich Gerhard di Berlino, fuggito negli Stati Uniti nel 1935 e riemigrato a Colonia nel 1955, rifiutando interpretazioni storiche teleologico-causali, per il periodo tra il XII e il XVII secolo ha proposto di parlare di una Old Europe, caratterizzata dal punto di vista strutturale dalle organizzazioni corporative e dalla microsuddivisione regionale. Su questa base, Peter Blickle (Berna) ha creato recentemente l'immagine di una «vecchia Europa», le cui unità di misura si sono fondate fino al XVIII secolo su economia e governo nella "casa", sulla realizzazione e la garanzia della pace tra i sudditi e sul buon governo del principe. E anche per Heinz Schilling l'«età moderna», che egli identifica con un'«Europa della cristianità», si estende dal XIII al XVIII secolo. L'«inizio della modernità» verso il 1500 non rappresenta che un episodio di una «trasformazione di durata molto maggiore», ed egli ritiene almeno altrettanto importante del frangersi dell'unità confessionale cristiana, la capacità che ebbero i nuovi sistemi confessionali come il luteranesimo, il calvinismo e il cattolicesimo tridentino di esercitare un'influenza sulla società. Infine, nuovi approcci alla storia culturale esortano a dedicare maggiore attenzione al giudizio dei contemporanei e alla concettualizzazione con cui essi hanno puntualizzato i processi di trasformazione di cui sono stati consapevoli.

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