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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2012 alle ore 19:12.

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Forse stiamo arrivando da qualche parte: l'idea che un elemento importante dell'immagine di Petra fosse invisibile fa supporre, infatti, che ciò che chiediamo a tale immagine non sia unicamente un'esperienza estetica. Il problema, in quel caso, non era ciò che si percepiva, ma le ragioni e la storia che queste cose hanno alle spalle. La replica perfetta di una ziggurat nei giardini dell'Idroscalo, alla periferia Est di Milano, sarebbe meno interessante dell'originale: quello che le manca, ovviamente, è la storia.

Di che storia si tratta? Non ha a che vedere, nello specifico, con i sacerdoti mesopotamici o i commercianti di avorio di Harar; ha a che fare con noi che ci andiamo. Nel momento in cui metti piede nel tempio, o scorgi il collo della iena fra le pietre, non pensi a quello che stai vedendo (puoi vederlo anche su internet), pensi a te; la storia che cerchi è la storia della tua scoperta. Non guardi il fregio del tempio come uno storico dell'arte che lo vuole capire, ma come un esploratore che lo vede per la prima volta; il primo sarebbe solo felice di avere intorno altri osservatori con cui confrontarsi, ma per il secondo significherebbe un viaggio a vuoto. Naturalmente, nessun turista pensa di poter scoprire qualcosa; ma comunque cerchiamo quel brivido, o, meglio, la possibilità di fantasticare per un istante su quel brivido: è questa possibilità che gli altri turisti ci precludono. Ci impediscono di guardare il tempio e socchiudere gli occhi e sognare di essere stati noi, appena ora, a riscattarlo da secoli di tarantole e liane.

È questo sogno, in parte, non la curiosità storica-artistica-antropologica, che ci spinge a viaggiare in posti lontani. Le culture distanti si scoprono spesso meglio in biblioteca che sul campo, se non altro all'inizio. L'interesse artistico o antropologico di cui parliamo per giustificare i nostri viaggi, quando diciamo "le culture lontane", non è il nostro: è quello degli esploratori in cui sogniamo di immedesimarci, che ci proiettiamo addosso per entrare nel personaggio. Si ironizza spesso sul fatto che i turisti si dimostrano curiosi di cose (arte, archeologia, architettura) che nella loro città non degnano di uno sguardo, visitando i musei altrui più spesso dei propri. Forse è ipocrisia, forse è che in vacanza si ha più tempo libero; o forse è che quando sono a Milano sono io, ma quando sono a Roma parte di me sogna di essere Madame de Stäel. Non serve conoscere gli scritti della De Stäel per provare la stessa sensazione; il fascino della scoperta penetra, nel tempo, nell'idea collettiva che si ha di un luogo. Non è un caso che le mete "esotiche" più popolari siano spesso legate a grandi esplorazioni: America Centrale, Asia e Mongolia, Egitto… La cultura dell'antico Egitto non è intrinsecamente più affascinante di quella dell'antico Giappone; ciò che rende la prima tanto più attraente per un turista europeo è la potenza del racconto d'esplorazione in cui ci permette di immedesimarci. È questo, in parte, che intendiamo con "fascino" di una cultura.

Vogliamo quell'esperienza, certo, perché non è più ripetibile. Se un turista, che di fronte al tempio nella giungla cambogiana lamenta la presenza di altri turisti, avesse la possibilità di andarci per primo come ci si andava un secolo fa, sfidando naufragi e stregoni e malattie impronunciabili, con ogni probabilità non ci andrebbe. Ci prendiamo il lusso di vagheggiare un certo tipo di avventura proprio perché sappiamo che nessuno, neppure la nostra coscienza, ci metterà mai alla prova dei fatti, dal momento che quei fatti non esistono più. E però li sogniamo: e il loro racconto è entrato nella cultura che ci spinge a cercare di replicarli, anche solo fantasticando, per un attimo o due.

Quel racconto irripetibile, di cui noi posteri dobbiamo accontentarci, è però anche la nostra fortuna. Uno dei libri che mi hanno fatto fantasticare su Harar, in Etiopia, era First footsteps in East Africa del capitano Richard Francis Burton. Oggi, certo, replicare l'esperienza di Burton è impossibile. Ma Burton non aveva l'esperienza di Burton che vorremmo noi; il fastidio del turista nasce dal senso di aver perso qualcosa che in realtà nessuno ha mai avuto. Burton non si svegliava al mattino ruggendo sotto il vento incessante del Corno d'Africa, esultando per la propria avventurosità e fremendo d'impazienza per la prossima scoperta; si svegliava ringraziando Allah di avergli risparmiato la mosca tse-tse, scrostandosi le labbra inaridite dal simun e pregando di salvare le budella dalla dissenteria. L'esperienza di Burton, quella che vorremmo, è appannaggio solo nostro: non come turisti, certo, ma probabilmente come lettori. È già qualcosa. ▪

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