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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2012 alle ore 16:54.

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Eric Hobsbawm, morto a 95 anni, è stato coerentemente fino alla fine uno storico marxista (ma sarebbe meglio definirlo marxiano, cioè legato al metodo d'indagine storica ideato dal Marx studioso di Hegel, di David Ricardo e Adam Smith), privilegiando sempre l'analisi dei fattori economici e sociali, dei «report delle Nazioni Unite, delle cronache del Guardian (dove scriveva), del Financial Times e del New York Times» per comprendere perché le vicende siano andate in un senso, piuttosto che in un altro.

«Ho capito di più sulle tasformazioni di una città, tornando dopo 30 anni a Palermo o a Barcellona - amava ricordare alle feste di compleanno a cui arrivavano i telegrammi di auguri del presidente brasiliano Lula e di quello italiano Napolitano – per comprendere i fenomeni dell'urbanizzazione e l'abbandono delle campagne». Offriva chiavi di lettura dichiaratamente di parte, ma con l'avvertenza di non avere pretese di imparzialità. Anzi, riconosceva la sua ignoranza in alcuni aspetti scientifici e in alcuni periodi storici, lui, uno dei massimi intellettuali e storici del mondo, spiegando che di fronte a un secolo «così ricco di informazioni e dati» era impossibile avere la conoscenza di tutto. Occorreva selezionare, trovare ciò che valeva.

Ha sempre privilegiato la conoscenza diretta, lui che era nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917 da famiglia ebrea di nazionalità britannica, l'anno della rivoluzione sovietica, aveva vissuto a Berlino, era sfuggito grazie al passaporto inglese alle leggi razziali di Hitler e a 14 anni si era iscritto al Partito cominista.

È stato giornalista occasionale, soprattutto per alcuni reportage dal Sud America, ma invitava a diffidare dalle interviste ai leader politici «perché erano troppo ufficiali». Preferiva dati economici e raccontare aneddoti, come quello in cui ricordava di aver chiesto a Praga durante sotto l'occupazione sovietica, chi fosse Marx, e un passante gli avesse risposto che era il traduttore ceco di Lenin.

È stato lui ad inventare il termine "secolo breve" per definire il Novecento, a partire dal 1914 al 1991, caduta dell'Unione sovietica. Lo studioso marxista aveva scelto per il suo omonimo saggio due date spartiacque per concentrare gli avvenimenti del XX secolo: il 1914, scoppio della Prima guerra mondiale, e il 1991, dissoluzione dell'Unione Sovietica dopo la caduta del Muro di Berlino.

Il "Secolo breve" succedeva al "secolo lungo", l'Ottocento, che nel giudizio di Hobsbawm si era aperto con la Rivoluzione francese del 1789 e l'emencipazione della borghesia contro la nobiltà per chiudersi alla vigilia della Grande Guerra nel 1914.

"Il Secolo breve" apparve in edizione originale nel 1994 da Pantheon Books e venne pubblicato in Italia nel 1995 da Rizzoli con il titolo Il Secolo breve - 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi". Il libro delinea un panorama esauriente della storia del XX secolo. Il secolo, per molti aspetti, più violento della storia dell'umanità: ben due guerre mondiali. Hobsbawm riteneva che non bisognava dare nulla per scontatao: amava ricordare l'episodio quando uno studente americano gli chiese se, dato che lui stava parlando della Seconda guerra mondiale, dovesse ritenere che ce ne fosse stata una prima!

Ma il XX secolo è stato caratterizzato anche dall'emancipazione femminile, come gli aveva ricordato Rita Levi-Montalcini, dal progresso scientifico, dalle rivoluzioni nella società e nella cultura, dai campi di sterminio, come gli aveva ricordato Primo Levi. Un "secolo breve" per l'accelerazione sempre più esasperata impressa agli eventi della storia e alle trasformazioni nella vita degli uomini «Per il poeta T.S. Eliot il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un'esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo. Il Secolo breve è finito in tutti e due i modi», scrive lo storico nella prefazione del libro che conta ben 710 pagine, che nella sua prima edizione costava 60mila lire.

Più precisamente, Hobsbawm divide il secolo in fasi distinte: una prima, definita Età della catastrofe, dal 1914 al 1945, paragonabile al periodo della guerra dei trent'anni, con il primo e il secondo conflitto mondiale e le crisi che li accompagnarono e seguirono, e caratterizzata dal dissolvimento di tutti gli imperi millenari (russo, tedesco, austriaco e ottomano). Lo storico vedeva i due conflitti come il proseguimento l'uno dell'altro.

Una seconda fase, detta Età dell'oro, dal 1946 al 1973, quella della babyboomer generation, con la definitiva fine del colonialismo, le scoperte in campo medico, scientifico e tecnologico, la crescita dell'economia basata tanto sul capitalismo e su una politica di liberismo di stampo occidentale quanto sul sistema economico sostenuto dal comunismo (boom economico).

Una terza ed ultima fase, definita la Frana, individuata essenzialmente negli anni che vanno dal 1973 al 1989 - anno della caduta del muro di Berlino (9 novembre) - e poi al 1991 (o, al massimo, a un paio di anni dopo) con il dissolvimento dell'Urss sancito il 26 dicembre di quell'anno e la conseguente fine della Guerra fredda e delle ideologie politiche totalitarie, l'ascesa del gigante cinese.

Dalla Frana in avanti è finito "il Secolo breve". Ma le radici del nuovo secolo affondano in quello "breve", che per certi aspetti dunque non è ancora finito. Il prossimo secolo sarà quello del lento declino americano, dell'ascesa cinese e forse anche di quella europea.

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