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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2012 alle ore 08:17.

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È scomparso Eric Hobsbawm all'età di 95 anni, uno dei più grandi storici della nostra epoca. Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917 ha sopravvissuto di oltre vent'anni la fine del suo "Secolo Breve" (1917-1991).
Negli ultimi tempi furono poche le recensioni delle sue opere che non accennassero al suo essere comunista. La lista degli storici importanti che sono stati comunisti è impressionante. Nella sola Francia, oltre a Furet e Kriegel, ci sono stati Emmanuel Le Roy Ladurie, Maurice Agulhon, Jean-Jacques Becker e Jacques Ozouf e molti altri. Essere storico e comunista non è mai stato eccezionale. Ciò che era scandaloso era rimanere fino alla fine un comunista non pentito.
A ogni intervista, soprattutto nel mondo anglosassone, arrivava prima o poi l'inevitabile domanda: Ma perché è rimasto nel partito comunista? Lo ammetta: fu un grave errore. Guardi, sembrava dire l'intervistatore, le offro l'opportunità di denunciare il suo passato. La colga.
Anche se ha sempre rifiutato di abiurare, Hobsbawm non ha esitato – basta leggere la sua autobiografia (Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Milano, Rizzoli, 2002) – ad ammettere liberamente errori, interpretazioni sbagliate, la realizzazione tardiva del l'enormità dei crimini di Stalin. Tuttavia, sulla sostanza rimase impenitente.
Che tipo di comunista era? Egli apparteneva, come spiega, alla generazione per i quali la speranza di una rivoluzione mondiale era così forte che abbandonare il partito comunista era come cedere alla disperazione. Ma deve essere stato tentato. Dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria un gruppo di intellettuali di partito inviarono una lettera al Daily Worker, il quotidiano dei comunisti britannici. Le firme erano prestigiose: Hobsbawm, Christopher Hill, E.P. Thompson, Rodney Hilton, Doris Lessing. La lettera dichiarava che «il sostegno acritico dato dal nostro partito all'intervento sovietico in Ungheria è il risultato di anni di distorsione della realtà, e del fallimento dei comunisti britannici di pensare con la propria testa... La rivelazione di gravi crimini e abusi nell'Urss e la recente rivolta di lavoratori e intellettuali contro le burocrazie pseudo-comuniste e i sistemi polizieschi esistenti in Polonia e Ungheria, hanno dimostrato che negli ultimi dodici anni abbiamo basato le nostre analisi politiche su una visione falsa dei fatti ...». Naturalmente il Daily Worker si rifiutò di pubblicare la lettera che invece vide la luce del giorno sul The New Statesman. Già prima del 1956 Hobsbawm aveva smesso di ammirare la società sovietica, ma, come molti comunisti della sua generazione si consideravano «combattenti in una guerra onnipresente». Come altro si può tollerare il male, se non dicendo che qualcosa di peggio sarebbe accaduto? Questo non giustifica nulla, ma spiega molto. E spiega perché gli piaceva la famosa poesia di Brecht del 1938 An die Nachgeborenen (A quelli nati dopo di noi) e soprattutto il passo: Oh, noi/che abbiamo voluto preparare il terreno alla gentilezza,/non abbiamo potuto essere teneri./Ma voi, quando sarà venuta l'ora/che gli uomini si aiutino l'un l'altro,/pensate a noi con indulgenza.
Ed è così che io lo ricorderò, con indulgenza e anche con ammirazione. Ma gli storici di oggi, anche quelli più critici sulle sue scelte politiche, non possono che stupirsi dell'ampio raggio delle sue ricerche e dei suoi interessi. Fu comunista, ma non storico "comunista".
Le sue opere, che avevo iniziato a leggere all'università, non erano certamente "comuniste". Industry and Empire (in Italia: La rivoluzione industriale e l'Impero) non era certo una chiamata alle armi, né lo erano i numerosi contributi di Hobsbawm ai dibattiti che appassionavano e dividevano allora gli storici dell'economia quali quello sul tenore di vita delle classi lavoratrici durante la rivoluzione industriale.
Hobsbawm, almeno nella sua produzione scientifica, rimase lontano dalla preoccupazione di molti intellettuali comunisti "organici". Da storico non scrisse quasi nulla sul l'Urss; poco di storia comunista pur intervenendo regolarmente nei dibattiti fuori dal l'accademia. E non sempre dalla parte del suo partito. Mi ricordo una stroncatura al primo volume della storia "ufficiale" del Pc britannico, pubblicata sulla New Left Review (marzo-aprile 1969), dove accusava l'autore di essere «paralizzato dall'impossibilità di essere al tempo stesso uno storico e un fedele funzionario di partito». E lo contrastava sfavorevolmente con la Storia del Pci di Paolo Spriano (trovando questa un «lavoro serio e scientifico» anche se discutibile). La prima fama di Hobsbawm non fu dovuta a interventi sui temi tradizionali della storiografia marxista ma su un argomento sul quale né la storiografia marxista né quella non-marxista si era particolarmente soffermata. Mi riferisco alle opere sul banditismo sociale e le ribellioni pre-capitaliste: Primitive Rebels (1959, in italiano I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale) e Bandits (1969, I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna).
Da allora numerose sono state le opere dedicate a questi temi e, malgrado il passaggio del tempo, è difficile aprire un libro o un articolo sul banditismo o sul ribellismo "primitivo" senza un riferimento ai lavori di Hobsbawm.
Molti sarebbero stati tentati di continuare a lavorare su un terreno così fecondo passando la vita a scrivere storie sociali del brigantaggio, ma Hobsbawm era interessato a un arco ben più vasto. I suoi quattro volumi sulla storia del capitalismo (Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, L'Età degli imperi. 1875-1914,e Il secolo breve 1914-1991) rimarranno un grande esempio di quello che i francesi chiamano haute vulgarization. La facilità non comune di espressione dell'autore, il suo stile vivace e la sua capacità di sintetizzare complesse vicende lo resero noto in ampi cerchi di non specialisti. Una sua raccolta con il titolo indovinato, L'invenzione della tradizione, (1983, con Terence Ranger) produsse una fioritura di ricerca dedicata alla "invenzione" di questo o quello evento "storico", alla sua memoria. Altri suoi lavori miravano a "smontare" l'insistenza sulla questione identitaria, soprattutto quella nazionale: il suo Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà davano sostanza alla sua repulsione contro le celebrazione nazionaliste. Il suo Echi della Marsigliese. Due secoli giudicano la rivoluzione francese era diretta principalmente contro il revisionismo di Alfred Cobban e quello più noto e più recente di François Furet. Accanto a queste opere poi apparivano una miriade di articoli e di saggi spesso raccolti in volumi che spaziano su una varietà di argomenti storici, ma anche articoli più "politici", veri interventi sulla congiuntura pubblicati in varie riviste. In tutto questo vediamo uno dei filoni più salienti del marxismo europeo: un pessimismo dell'intelligenza appena temperata da un ottimismo della volontà, ben lontano dal tono esageratamente ottimista della tradizione del marxismo sovietico.

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