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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2012 alle ore 15:27.

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Illustrazione di Guido ScarabottoloIllustrazione di Guido Scarabottolo

All'inizio dell'estate i quotidiani di tutto il mondo annunciavano che le donne avrebbero superato gli uomini in intelligenza. L'ha detto James Flynn, scrivevano i giornalisti che avevano sentito dire trattarsi di uno dei massimi esperti di misura del quoziente di intelligenza (QI). Peccato che il nostro non avesse scoperto un tale fatto, e che si sia anche dispiaciuto – ma questo nessun giornalista l'ha riportato – per la manipolazione. Si è solo visto che in alcuni paesi, per la prima volta, le donne danno risultati pari o leggermente superiori agli uomini in test di intelligenza che valutano le capacità logiche-astratte. Il dato consente solo di dire che anche per loro vale l'effetto Flynn.

Si tratta della scoperta, negli anni Ottanta, che nei paesi industrializzati, durante il Novecento, le prestazioni nei test di intelligenza che misurano le capacità logiche e di astrazione sono aumentate di 3 punti ogni anno. Col passare degli anni le persone a parità di età diventavano sempre più brave e conseguivano punteggi progressivamente più alti. Per questo i test vengono rinormalizzati periodicamente. Le prestazioni in altri tipi di test, che valutano altre capacità cognitive, non hanno registrato gli stessi miglioramenti.
Concepire una qualche superiorità cognitiva di un genere rispetto all'altro, o di una nazione o di un'etnia è biologicamente insensato.

La genetica ci dice che come specie siamo molto più identici che diversi, e che la neurobiologia dimostra che il cervello umano è straordinariamente plastico sul piano anatomo-funzionale. È quindi ragionevole ipotizzare che le differenze medie nelle prestazioni cognitive dipendano soprattutto dalle esperienze. Le differenze genetiche individuali ci sono, e contano. Ma il contesto è altrettanto importante dei geni nella determinazione dei tratti complessi, come l'intelligenza. Flynn ha dimostrato, senza negare per motivi ideologici l'esistenza di un fattore g (intelligenza generale) scomponibile ma costantemente rilevabile attraverso i test psicometrici, che le differenze tra etnie o generi o nazioni si possono meglio spiegare senza invocare, appunto, la genetica.

In particolare, egli è diventato, partendo come filosofo morale, uno dei massimi esperti di test di intelligenza proprio per confutare la scoperta pubblicata da Albert Jensen nel 1968, e che scatenò veementi reazioni, che i neri conseguono risultati inferiori nei test di intelligenza. Dopo aver verificato che il dato era vero, ha dimostrato che ciò non ha a che fare con la genetica, ma con le condizioni familiari ed educative in cui maturano cognitivamente i bambini. Analizzando i fattori implicati nella produzione dell'effetto che porta il suo nome, egli ritiene che le condizioni di vita della modernità (famiglie meno numerose, dove, oltre a frequentare la scuola, i bambini interagiscono con genitori più istruiti e disponibili al dialogo) abbiano incrementato la diffusione nel corso del Novecento di un'intelligenza di tipo nuovo.

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