Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

My24

Avevo una ventina d'anni, studiavo letteratura americana e Fernanda Pivano non era "un mito", ma un nome imprescindibile, sì. Non essendo ancora arrivata la sbandata per Ligabue e compagnia cantante, la traduttrice di Faulkner e Fitzgerald – che io non osavo nemmeno chiamare "Nanda", come oggi fa chiunque abbia non dico letto Hemingway ma anche solo sorseggiato un daiquiri – era una figura di mediatrice importante, un'indispensabile traghettatrice. Interviste, traduzioni, prefazioni, curatele, articoli: non c'era bisogno di nutrire interesse nei confronti di una qualsiasi generation – lost, beat, X, chemical, whatever: comunque fasulla – per avere incrociato quel nome poco accademico e molto on the road. Fernanda Pivano aveva "occupyto" l'argomento dell'altra America, lasciando gli atenei ai colleghi blasonati. «Tenetevi le vostre cattedre impolverate», sembrava dire la ragazzina che aveva rischiato il carcere per tradurre Addio alle armi.

«Io gli scrittori me li vado a stanare e poi ve li ammollo. Il resto è bla-bla-bla». Era lo stile Hemingway applicato alla critica letteraria: prima vivi e poi scrivi, possibilmente in modo comprensibile a tutti. Infatti i suoi saggi ce li eravamo fumati, prima ancora che letti. Quando seppi che un'amica della mia ragazza conosceva un tizio che bazzicava la Pivano non esitai a farmi avanti e venne combinato un incontro.
Un sabato pomeriggio uscii di casa con una pianta mezza rinsecchita. Fuori soffiava un vento insolito che la faceva oscillare come un birillo. In centro mi ritrovai in mezzo a un corteo, forse i fantasmi degli Industrial Workers of the World, e venni sballottato di qua e di là. Quando sbucai dall'altro lato, la pianta ricordava un Gregory Corso a fine serata. Arrivato da lei, feci un bel respiro e mi dissi: «Forza, alla peggio finisci dentro un elzeviro sul Corriere della Sera». Sulla porta mi accolse un tombolotto arzillo vestito di nero con un sorriso diabolico. «Benvenuto…». Mancava solo lo scricchiolio dei cardini e il forno acceso con i biscotti avvelenati. «Buongiorno…», tartagliai, allungando la piantina ormai stramazzata. Lei squadrò quel cascame borghese e lo buttò in un angolo, nemmeno le avessi portato un romanzo di Danielle Steel. Quindi contemplò le mie mani, come se si aspettasse di trovarvi qualcos'altro. «E le poesie?».

Nel telegrafo senza fili della spintarella qualcosa doveva essere stato equivocato ed ero passato per un giovane versaiolo in cerca di plaquette. Lei, avvezza alle velleità di mezzo mondo, sembrò quasi delusa. «E va bene, dai: vieni a sederti». In quella specie di dedalo letterario dove le pile dei libri avrebbero potuto comodamente fungere da tramezzi fra una camera e l'altra, costruito nel corso di una vita consacrata all'ossimoro (la donna lost e beat più morigerata della storia), il Minotauro stava già trottando via. Lo seguii fino a un salottino sulla destra, dove temevo di trovare la sagoma impagliata di Steinbeck o l'organetto di Ginsberg. Invece c'era un divanetto, dove lei si lasciò cadere. «Allora, che cosa volevi?». Era così abituata alle suppliche che non concepiva più un'ammirazione disinteressata. Risposi che ero cresciuto leggendo le sue traduzioni e feci subito il passo falso di nominare l'università. «I professori non hanno capito niente di quello che ho scritto! Il personaggio è azione!».

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi