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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2012 alle ore 08:28.

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Bisognava pur scriverla, prima o poi, la storia della fecondazione artificiale. Bisognava pure che uno storico, affiancando il proprio sapere a quello di medici e giuristi, psicologi e filosofi, riprendesse dall'inizio una vicenda lunga più di due secoli: la vicenda sfociata in Italia sulla legge n. 40 del 19 febbraio 2004, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Bisognava pure che qualcuno si incaricasse di spiegare, attraverso un esercizio di storia comparata, quella che sembra altrimenti un'anomalia tanto flagrante quanto incongrua: la vigenza nell'Italia di oggi di una normativa sulla procreazione assistita talmente retrograda da non avere uguali nelle legislazioni degli altri Paesi sviluppati.
L'esercizio di storia comparata è quanto ha compiuto Emmanuel Betta in L'altra genesi: un libro che fin dal titolo indica il punto dolente, sottolineando come i progressi della fecondazione artificiale si siano rivelati tanto più problematici quanto più hanno impattato - oltreché sulle fondamenta del rapporto fra natura e cultura - sull'ipoteca del discorso biblico. Sicché la condizione peculiare dell'Italia di oggi va illustrata raccontando, evidentemente, la diffusione nazionale e internazionale di teorie e pratiche relative alla fecondazione artificiale: ma va illustrata anche confrontando le relative risposte delle Chiese. Questa è una storia di esperimenti scientifici, di colture e provette, ma è anche una storia di pronunciamenti dogmatici, di allocuzioni papali e decreti inquisitoriali.
Paradossalmente, la storia incomincia da un prete. Incomincia da Lazzaro Spallanzani, il sacerdote emiliano professore di storia naturale all'università di Pavia, che negli anni Settanta del Settecento pervenne a realizzare in laboratorio fecondazioni artificiali sia extracorporee sia intracorporee. Rane, salamandre, cani: l'abate Spallanzani sperimentò un po' su tutto, e teorizzò le proprie scoperte in un articolo enciclopedico del 1779, Fecondazione artificiale. Per parte loro, i maggiori rappresentanti europei della Repubblica delle Scienze non tardarono a riconoscere come esplosive le implicazioni delle sue ricerche. Da Ginevra, Charles Bonnet scrisse a Spallanzani nel 1781: «Non è detto che la vostra recente scoperta non abbia un giorno nella specie umana applicazioni che noi non osiamo pensare, le cui conseguenze non sarebbero certo lievi. Voi mi intendete...».
Già una decina d'anni dopo, un noto chirurgo inglese, John Hunter, riuscì a fecondare una donna che non poteva avere figli a causa di un'anomalia genitale del marito iniettandole il seme di questi con una siringa riscaldata. Seguì mezzo secolo di stasi, finché negli anni Sessanta dell'Ottocento un medico francese, Louis Girault, rese nota una sua pratica ormai ventennale di fecondazioni artificiali destinate a riparare alla sterilità maschile come alla femminile. Da allora, il problema della fecondazione artificiale si pose apertamente quale problema non soltanto clinico, ma anche morale. E se non ancora giuridico, fin da allora teologico.
Nell'età della regina Vittoria, rimediare alla sterilità attraverso l'inseminazione artificiale significava investire un pilastro della morale sessuale borghese: l'intimità della coppia nella camera da letto. Significava, inoltre, sfidare il riferimento biblico del Genesi sullo spreco di seme operato da Onan: le pratiche terapeutiche più correnti comportavano infatti l'ottenimento del seme attraverso la masturbazione. Significava, ancora, porre la questione sociale della riconoscibilità della figura paterna, e in generale dell'eredità sia genetica che patrimoniale. Perché una volta affrancata la riproduzione dal rapporto sessuale, la fecondazione poteva ben avvenire in forma eterologa anziché in forma omologa: con il seme di un donatore anziché con quello del coniuge. Altrettante ragioni che spinsero la congregazione vaticana del Sant'Uffizio a non attendere oltre il 1877 per decretare (in istruzioni riservate al clero) l'assoluta illiceità della fecondazione artificiale.
La Chiesa cattolica dovette fare i conti in quegli anni con un secondo protagonista italiano di questa storia, lui stesso professore all'università di Pavia prima di trasferirsi a Firenze: il fisiologo milanese Paolo Mantegazza. Un liberale e un darwinista della più bell'acqua, che nel suo studio Sullo sperma umano (1866) suggerì due idee pioneristiche: il congelamento del seme maschile, la creazione di una banca per la sua conservazione. «Potrà anche darsi che un marito morto sui campi di battaglia possa fecondare sua moglie anche fatto cadavere, e avere dei figli legittimi anche dopo la di lui morte»: nell'età di Jules Verne, Mantegazza gli teneva testa per capacità visionarie.
Correva l'anno 1897 quando la Chiesa cattolica produsse una condanna ormai pubblica della fecondazione artificiale. Non licere, decretarono stringatamente i consultori del Sant'Uffizio, sottoscrisse il papa Leone XIII, stamparono le tipografie vaticane. L'inseminazione artificiale era contraria al diritto canonico, poiché senza rapporto sessuale non si dava consumazione del matrimonio. Era moralmente disonesta, poiché senza rimediare alla concupiscenza del marito schiudeva la porta all'adulterio della moglie con un donatore. Era teologicamente turpe, poiché prevedeva la masturbazione dell'uno o dell'altro.
Nei fatti, soltanto con il procedere del XX secolo - a partire dagli anni Venti, dopo il trauma demografico e psicologico della Grande guerra - la fecondazione artificiale divenne opzione terapeutica veramente diffusa nell'Europa continentale, in Gran Bretagna e più ancora negli Stati Uniti. E soltanto allora, intrecciandosi ai progressi dell'eugenetica, divenne una pratica potenzialmente minacciosa per le sue ricadute sociali, cioè giuridiche e bioetiche. Ma all'appuntamento di queste sfide il Vaticano non si fece trovare impreparato: rispolverò tale e quale l'armamentario dogmatico approntato a fine Ottocento.

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