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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2012 alle ore 08:19.

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Circa alla metà degli anni 70 Borges scrive un piccolo, corposo testo dal titolo Letterature germaniche medievali, uno studio dedicato all'Europa del nord, Inghilterra, Germania e Scandinavia e un percorso archeologico da cui interpretare il presente. Nell'analisi della tradizione letteraria degli scandinavi innesta un lungo, affascinante capitolo dedicato al l'Islanda, regione anomala nel panorama letterario europeo. Sempre che l'isola a nord del mondo si possa considerare Europa: la taglia in diagonale la faglia medio-atlantica, una spaccatura che ogni anno si allarga di un centimetro: a ovest c'è il richiamo geologico del continente americano, a est l'Europa.
Del resto dall'Europa vennero i coloni che diedero vita alla storia di questo Paese: era l'875 quando gli esuli volontari dalla Norvegia unificata sotto lo scettro di Harald Bellachioma si insediarono in una terra che pareva dimenticata da Dio, se non fosse che ci abitavano pochi, sparuti e isolati monaci irlandesi. Il gesto di ribellione al potere dell'ambizioso Harald (che aveva giurato di non pettinarsi e non tagliarsi i capelli fin quando la Norvegia non fosse stata sua: quattro anni di scapigliatura e battaglie!) avviò una storia segnata da una passione che si è allungata nel tempo da quel remoto IX secolo fino a oggi: la passione del racconto. Un amore capillare, diffuso e comune a colti e ignoranti, uomini radunati attorno a un bicchiere di birra o disciplinati amanuensi e scrittori. In principio fu, appunto, la parola parlata, e saga viene dalla radice anglo germanica say e sagen, poi tra rune e alfabeto latino cominciò l'affondo nella scrittura. Fu il via a un patrimonio enorme, cresciuto in autonomia rispetto al resto della cultura europea, ignorato dal resto dell'Europa, un bagaglio di oggettive e cronologiche narrazioni che fanno la storia di questo Paese, senza abbellimenti e simbolismi, espressione di un'esigenza radicata nello spirito del popolo: «narro, quindi sono!» per piegare Cartesio alla fisionomia dell'Islanda. Lo stesso presidente dell'Althing, l'assemblea annuale della popolazione dell'isola, veniva chiamato «il narratore delle leggi», quasi che memoria e conoscenza non potessero passare che attraverso il racconto.
In un paesaggio di ghiacciai che scendono in mare e vulcani attivi, di tanta luce e tanta notte, il rapporto tra umanità e natura segue logiche differenti dal bilanciato equilibrio mediterraneo. E però, sarebbe suggestivo pensare alle storie raccolte a partire da quell'800 dopo Cristo come pendant con l'800 avanti Cristo omerico, gli scaldi come gli aedi, Snorri Sturluson come Demodoco alla corte dei Feaci, cantori di un universo arcaico e di una plausibile verità storica. Ci fu una vera guerra di Troia, per quanto ammantata di epos, come ci furono le lotte di predominio in terra d'Islanda, e la splendida corte di Priamo col famoso tesoro non doveva essere tanto diversa da un'opulenta fattoria nell'ovest dell'isola dei ghiacci, dove cresceva l'erba migliore a nutrire una razza di pecore unica al mondo, mai bastardata, neppure oggi, con altre. Come dice Bill Holm, scrittore e musicista islandese d'America, «le pecore come la lingua» , incontaminate! È un altro tratto di distinzione, un'anomalia, che la lingua degli scaldi, i poeti del Medioevo islandese, sia perfettamente comprensibile a un cittadino di Reykjavik oggi, molto più di quanto Dante sia alla portata di uno studente italiano delle medie superiori, che non se la cava senza le note.
Come dire? Il flusso di racconti ha cominciato a scorrere mille anni fa, ha prodotto una letteratura potente, che narra la Storia attraverso le storie con un metodo: esporre fatti e mai spiegazioni di fatti. La psiche sembra tagliata fuori dall'interesse narrativo, a vantaggio degli avvenimenti posti in rigorosa sequenza cronologica: niente sottolineature, niente rimandi, conta la fabula e non l'intreccio. Al lettore tocca trovare e riconoscere i nessi. Borges è affascinato da tanta consequenzialità e da un filone stilistico che anticipa il romanzo realistico dell'Ottocento, quasi che il fiume carsico abbia percorso il tempo da un remoto Medioevo barbarico all'Europa affacciata al positivismo. Flaubert, nel suo realismo secco e penetrante, è un inconsapevole seguace di una letteratura nata tra i ghiacci del nord. Ma è ancora più esplicito e coerente tale carattere nei narratori islandesi del XX secolo.
Quando Borges scrive il suo trattatello (che tra l'altro, nella sezione germanica, sarebbe utilissimo ai wagneriani che accorreranno nell'estate scaligera al rito del Nibelungen Ring), la scena letteraria d'Islanda è dominata da Halldor Laxness, premio Nobel nel 1955. Basterebbe lui a declinare quanto un patrimonio letterario, una capacità inventiva e una sapiente, fantasmagorica vena narrativa di nuovo sgorghino da questa strana regione. Laxness muore nel 1998, a 96 anni vissuti polemicamente con la sua isola e spesso lontano da lei, ma marchiato dal segno della terra natale: la sua fine è un lutto per l'Islanda che lo celebra con la lettura integrale alla radio del capolavoro Gente indipendente. E, racconta Bill Holm nel suo gustoso libro di vagabondaggi Isole, per l'occasione la radio accesa nelle case, sulle auto, nei bar, si trasforma in una potente amplificazione del focolare attorno al quale la gente si riuniva ad ascoltare storie. Non è molto consueto un tale tributo di emozione per la morte di uno scrittore, se non per una società in cui vivono e prosperano due tradizioni, scrivere storie e ascoltarle; qui all'arte del raccontare si dà un peso altro rispetto all'arte del parlare, che imperversa nella nostra realtà.

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