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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2012 alle ore 07:37.

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La dolcezza salverà il mondo. O, perlomeno, ci renderà meno amari gli anni della lunga crisi. Il bel messaggio, che potrebbe schiudersi con un Bacio Perugina (l'azienda umbra protagonista del servizio fotografico pubblicato in queste pagine), va decifrato con l'austera lettura dei dati Istat sull'andamento dei consumi italiani.

Perché, a fronte del tracollo dei beni dei durevoli (abiti, auto, elettrodomestici oltre il 3% nel 2012 e meno 6% negli ultimi 5 anni – mai così in basso dal Dopoguerra a oggi), ecco la volata di pochi prodotti tra cui la telefonia, l'informatica e il calorico ed energizzante cioccolato (+7,5% per valore nel 2011).
Gli italiani, molti alle prese con il puntellare di nuovi fori la cinghia, non rinunciano alla pralina e alla barretta. Anzi. Negli ultimi cinque anni i consumi di cioccolata nel nostro Paese sono aumentati del 20%. In media, i connazionali ne mangiano 4 chili all'anno: meno golosi degli inglesi con 9,5 chilogrammi a testa e i tedeschi con 8,7, ma sulla buona strada, considerando che il boom delle vendite va di pari passo con la stagionalità e quindi i climi freddi. In termini di giro d'affari, nella Penisola il dolce al cacao vale oltre 4 miliardi di euro, un terzo dell'industria dolciaria. E stando a sentire l'associazione di categoria Aidepi, anche il 2012 promette bene. Dice il direttore degli industriali di dolci e pasta, Mario Piccaluti: «I consumi alimentari hanno subìto una contrazione, ma rispetto all'andamento generale riteniamo che il comparto cioccolatiero, in particolare quello dei prodotti da impulso, come in passato possa avere una sostanziale tenuta».

Gli esperti che masticano le teorie economiche americane lo chiamano lipstick effect: quanto tutto va rotoli, il rossetto abbonda sulle labbra. Maquillage veloce che ricorda i fasti di un tempo, il calore del lusso che scalda e fa sentire meglio chi lo indossa. E questo vale anche e soprattutto per la cioccolata, fino al primo Novecento consigliata dai medici come antidepressivo. Nell'Italia delle tre F (Food, fashion and furniture), con la moda diventata preda di gruppi stranieri, l'arredamento col fiato corto, l'alimentare, e il dolciario in particolare, sembra spuntarla come perfetta sintesi del Made in Italy che reagisce alla crisi.
Un'Italia che diventa una Repubblica fondente, a base di fave di cacao. Si rischia di giungere a queste conclusioni scorrendo l'elenco degli uomini più ricchi del Paese secondo la classifica della rivista Forbes, dove primeggia, da cinque anni a queste parte, Michele Ferrero, il patron della Nutella e degli ovetti Kinder. Fino al 2007 la sfida tra paperoni era un'arena (dolcissima) tra Silvio Berlusconi, Leonardo Del Vecchio e Luciano Benetton che si contendevano il primato a suon di utili generati da televisione, editoria, occhiali e moda, autostrade.

Poi la guerra globale finanziaria ha sbriciolato patrimoni e ricchezze, anche quelle dei ricchissimi. E in cima è rimasta la Nutella. Con Michele Ferrero che, in meno di 10 anni, ha quintuplicato il suo patrimonio personale, da 3,7 miliardi ai 19 miliardi di oggi. Il cacao non è certo una risorsa del territorio, scoperto dai conquistadores spagnoli nelle terre dei Maya. Ma è stata l'industria nazionale a creare il mito della cioccolata nel mondo: dal gianduiotto alla crema da spalmare. Ferrero di Alba, 7,2 miliardi di fatturato nel 2012 e 21mila dipendenti, ne è l'esempio più croccante. È una delle poche multinazionali italiane in circolazione. Nel settore è quarta per ricavi nel mondo, dietro a colossi come Mars, Cadbury e Nestlé. La maggior parte della produzione nazionale di prodotti al cacao proviene da piccole e medie imprese, concentrate soprattutto nel Nord-Ovest, ma anche sparse in tutte la penisola.

All'Aidepi fanno capo circa un centinaio di aziende dolciarie, per un totale di 25mila addetti: oltre ai colossi come Nestlé (Perugina) o Ferrero ci sono marchi storici come Lindt, Novi, Venchi, Majani, Maglio, Caffarel, Icam, Domori, che sono realizzati in fabbriche che non superano i 300-400 dipendenti, con tecnologie modernissime e lavorazioni di stampo artigianale. Chi l'avrebbe detto che quella balzana idea del piemontese Antonio Ari, che nel 1678 ottiene una licenza da Madama Reale per la vendita a Torino di una bevanda a base di cioccolato, avrebbe creato un'industria così longeva. E soprattutto anti-crisi. Eppure oggi i suoi discendenti (i primi a vendere il cioccolato in forma solida sono stati i bolognesi Majani, nel 1796), possono permettersi di discettare sulla forma del gianduiotto, Gobino snellisce la barchetta rovesciata e la vende ai quattro angoli del mondo, Caffarel (gli inventori del celebre cioccolatino) rilancia sul formato originale.

L'Italia produce all'anno quasi 300mila tonnellate di questa delizia e i dati 2011 mostrano un exploit per i prodotti a base di cacao: +7,2% in valore. In generale l'export dolciario è cresciuto del +4,6% a volume, a fronte di una crescita del +8,2% a valore. La propensione alle esportazioni ha toccato il 42% a volume e il 23% a valore. Il saldo commerciale ha raggiunto 1,5 miliardi di euro, mettendo a segno un +10% sull'anno precedente. Si esporta soprattutto nei Paesi confinanti. Ma l'orizzonte si sta allargando: in molti puntano al Nord Europa e al mercato americano, oppure a Medio Oriente, Russia e Giappone, dove la presenza va ancora tutta consolidata e i ricavi delle esportazioni aumentano fino al 40% all'anno. L'effetto rossetto al cioccolato ha contagiato gli analisti di Kpmg, fino a qualche anno più concentrati nelle loro indagini sull'andamento di finanza e private equity, L'ultimo report della casa si interroga proprio sull'industria del cacao: Il cioccolato di domani. Un mercato che oggi vale la bellezza di 85 miliardi di dollari annui e che è destinato a crescere, almeno del 2% l'anno e che batte le ansie di recessione a suon di calorie.

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