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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2012 alle ore 12:51.

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David Warren Brubeck (Ap)David Warren Brubeck (Ap)

Il pianista e compositore David Warren Brubeck, Dave per la musica, direttore del più popolare quartetto della storia del jazz, si è comportato in modo insolito e speciale anche nel momento del trapasso. E' andato a morire ieri nell'ospedale di Norwalk, nel Connecticut, dove si era recato per sottoporsi a una visita di routine dal suo cardiologo di fiducia. E avrebbe compiuto oggi la bella età di 92 anni.

Era nato infatti a Concord, in California, il 6 dicembre 1920. La madre suonava il pianoforte, ma la persona dominante della famiglia era il padre, ricco amministratore di un'avviata azienda agricola e zootecnica. Dave era destinato a succedergli, e infatti era stato quasi obbligato a studiare veterinaria. La musica era un hobby, peraltro iniziato con impegno a quattro anni con lo studio del pianoforte e del violoncello. Fu durante il periodo del college che decise di lasciar perdere i campi e le mucche, iscrivendosi prima ai corsi musicali del College of Pacific a Stockton, e poi al Mills College di Oakland dove Darius Milhaud insegnava teoria e composizione. Divenne uno dei suoi allievi più attenti e non fu affatto danneggiato da una crescente passione per il jazz, alla quale lo stesso Milhaud non era estraneo.

Si accostò tuttavia alla musica afro-americana dall'esterno, con la mentalità del musicista accademico e anche un tantino altezzoso, malgrado il netto rifiuto opposto dal celebre bandleader Stan Kenton all'offerta delle sue prime composizioni. Nel 1946, insieme al sassofonista-arrangiatore Dave van Kriedt e ad altri alunni di Milhaud, fondò un ottetto sperimentale che nel 1948 riuscì a portare in sala di registrazione a San Francisco.
Era il momento in cui i musicisti del jazz moderno, dopo l'esplosione del «bebop», cercavano di mettere un po' di ordine in quei suoni coraggiosi ma difficili per i cultori di jazz dell'epoca. In varie zone degli Stati Uniti, seguendo l'esempio del compositore e pianista Lennie Tristano, numerosi jazzisti quali Gene Roland, Jimmy Giuffre e Gil Evans stavano approdando a risultati fra loro simili, attenuando le tinte forti del bebop e proponendo un vocabolario sommesso, ricercato e prezioso.
Il nome del nuovo stile fu subito inventato: «cool jazz», jazz fresco: e Brubeck, forse poù per merito di Kriedt che proprio, vi si inserì con sorprendente autorità. Opere come Prelude e Fugue On A Bop Theme sono lodate ancora oggi dagli intenditori, la prima per un'inedita solennità chiesastica destinata – così parve – a un seguito interessante che poi non ci fu; la seconda per la splendida traduzione nel linguaggio del jazz del contrappunto e della fuga. Ma tutta la produzione dell'ottetto (e di un trio che ebbe vita breve) fu di singolare interesse, se non altro per le sue incursioni nel terreno poliritmico e politonale, fino a quel momento quasi sempre evitato dalla musica afro-americana.

Tanti musicisti di jazz – per motivi che qui sarebbero troppo lunghi da esporre – hanno esordito con coraggio, curiosità, senso dell'avventura, e poi si sono lentamente ripiegati su un lavoro abitudinario, limitandosi a copiare l'exploit del proprio debutto o trovando una formula di compromesso, spesso brillante e di sicuro effetto sulla platea, da ripetere. Di questo fenomeno Brubeck è stato un esempio paradigmatico, al punto da provocare una clamorosa frattura fra milioni di spettatori che lo hanno osannato per sessant'anni e la critica internazionale che ha riservato non di rado, ai suoi innumerevoli dischi e ai concerti tenuti nei cinque continenti, recensioni severe.
Tutto cominciò nel 1951 con la riunione del Dave Brubeck Quartet: al trio formato dal pianoforte, dal contrabbasso e dalla batteria si aggiunse la voce raffinata e flautata del sax alto di Paul Desmond. In breve il quartetto diventò un caso singolare nel mondo del jazz. Il gruppo riusci a inventare una vera e propria ricetta musicale che teneva l'ascoltatore in bilico fra l'atmosfera di una tumultuosa seduta d'improvvisazione e il rigore di un'esibizione concertistica. Ai giovani piacque soprattutto il contrasto fra il timbro asettico di Desmond e il pianoforte torrenziale del leader, ricco di citazioni accademiche e di accordi elaborati, talvolta di gusto discutibile. La rivista Time dedicò a Brubeck una copertina e l'allora notissima Life gli riservò un ampio fotoservizio.

Furono le università e i collages, ai quali Brubeck ebbe l'idea di proporre un giro di concerti che poi vennero continuamente ripetuti, e decretargli un successo popolare privo di precedenti nel jazz. L'astuto pianista riuscì a prolungarlo ben oltre la sua separazione da Desmond, avvenuta ufficialmente nel 1967. Lo sostituì dapprima con Gerry Mulligan e in seguito con Jerry Bergonzi, con Bill Smith e altri; giocò le carte dei suoi tre figli musici, del fratello Howard compositore discusso e della sua collaborazione con il direttore d'orchestra Leonard Bernstein, riuscendo comunque a rimanere sulla vettà della celebrità. Fra i suoi moltissimi hits può bastare per tutti la citazione di Take Five, un tema di Desmond che si vendette a milioni di copie, cioè a livelli che il jazz consegue molto di rado.
Ma il vero Brubeck che gli storici hanno consegnato già da tempo agli annali del jazz, è quell'altro: quello dell'ottetto, quasi mai ritrovato nelle altre sue formazioni, che i jazzofili un po' maniaci del del dopoguerra ascoltavano fino a consumare i solchi del disco a settantotto giri.

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