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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 11:44.

E quelle accese conversazioni finivano quasi sempre con un ingiustificato rimpianto per gli anni d'oro del cinema e del teatro, anni che la generazione di Wilson aveva avuto la crudele sventura di non aver vissuto. Quei piccoli, di certo transitori, fallimenti, lo avevano portato a riflettere, a interrogarsi su cosa non andasse davvero nella sua persona, nel suo modo di porsi e presentarsi agli altri. Poteva essere che Jacopo Cerasa si rifiutasse di abbandonare definitivamente il corpo di Wilson Gargano? Era forse la sua affettazione in società? O la dizione sorvegliata che ogni tanto lasciava affiorare residui di un robusto accento nativo? Questi erano dubbi che non potevano essere condivisi. Ma attori più navigati, che sopravvivevano a Roma facendosi mantenere dai genitori e prendendo parte a ruoli occasionali in fiction e pubblicità con una cadenza saltuaria ma inesorabile, che non permetteva a nessuno, tantomeno a loro stessi, di mettere in dubbio il fatto che fossero attori, gli avevano suggerito alcune astuzie.

A cominciare dai vestiti, importanti per la carriera di un attore, o per lo meno, molto più importanti di quanto non credesse il nostro giovane attore. Così, dopo molti tentennamenti, Wilson decise di farsi accompagnare in giro per mercatini e negozi dell'usato da un amico omosessuale, ritenuto nell'ambiente una persona di gran gusto. Su banchi e bancarelle l'amico scovò per lui camicie bizzarre, giacche dagli ampi revers, pantaloni a zampa d'elefante, giubbotti di pelle, trench avvitati, cappelli curiosi, sciarpe e foulard sgargianti, occhiali vistosi e altri piccoli accessori solo all'apparenza secondari. Poi Wilson si fece convincere a fare un book fotografico che, gli spiegarono, era indispensabile per un attore. E per farlo lo accompagnarono da un grande fotografo che non ne faceva una questione di prezzo, o per lo meno "solo di prezzo", ma anche di sintonia, d'impressione "a pelle", come amava dire.

E per la fortuna di Wilson, l'impressione a pelle fu positiva. Ma per rifarsi guardaroba e book fotografico, Wilson aveva attinto all'unica risorsa di cui disponeva: il modesto ma dignitoso libretto di risparmio che la madre aveva accantonato in vista dei suoi studi facendo economie domestiche e piccoli lavori di cucito. Da quel libretto Wilson ritirava il denaro che gli serviva per vivere, mangiare e pagare il fitto, e cercava di farselo durare il più possibile confidando nell'imminenza di un ingaggio. Per farsi trovare preparato, nel frattempo, aveva investito un cospicuo ammontare di tempo e denaro in lezioni di canto, in un corso di dizione, e in un innovativo metodo per la voce che richiedeva un impegno e un esercizio, soprattutto un esercizio, che non tutti i condomini e i coinquilini di Wilson sembravano apprezzare. Ma il mondo continuava a dimostrare di poter fare tranquillamente a meno del suo talento.

Il colpo di grazia alle sue sostanze arrivò quando Wilson si fece convincere da una tipa che aveva conosciuto durante l'occupazione di un teatro a comprare un mezzo di locomozione. Si trattava della vespa usata del fratello della tipa, un cinquantino glorioso, sverniciato e ammaccato, ma ancora in discrete condizioni. Così, Wilson, coi suoi pantaloni di velluto a coste larghe, il giubbotto di pelle con in tasca tabacco e cartine, ora non arrivava più in ritardo ai provini e agli spettacoli, ma sfrecciava per la città, molto più consapevole di sé e dei suoi mezzi. Forse l'aspetto esteriore e la mobilità sul territorio contavano, ma non erano tutto. Dovevano esserci altri fattori, visto che un anno dopo il suo arrivo a Roma Wilson non era riuscito ancora a sfondare in quel mondo che pareva sempre più sordo alla sua richiesta d'ascolto. Nel frattempo erano successe altre cose, cose da non sottovalutare. Innanzitutto il libretto di risparmio si era prosciugato e a causa di ciò i rapporti con la famiglia si erano raffreddati. Il padre, che approfittava delle prime giornate di caldo per scacchiare la vigna, attraverso la madre che faceva ancora da ponte radio tra i due, aveva fatto sapere senza troppi convenevoli che quel vagabondo del figlio se voleva fare l'attore doveva mantenersi da solo.

Lui una mano gliel'avrebbe anche data, ma per fare una cosa seria, come inoltrare quella domanda alle ferrovie dove conosceva un amico, tanto per dirne una. Se pensava che lo avrebbe mantenuto in eterno con la sua pensione, si sbagliava di grosso. Come sanno i giocatori di roulette, anche le serie negative più lunghe statisticamente prima o poi si devono interrompere. E per Wilson con l'autunno arrivò anche l'occasione della vita. Attraverso la soffiata di un amico, aveva avuto il privilegio di partecipare a un seminario tenuto da un maestro di fama internazionale: un regista basco noto nel mondo per il suo teatro sperimentale e, per così dire, sensoriale. Fin dalle prime ore di lezione Wilson si rese conto di essere di fronte a un genio, qualcuno in grado di riconoscere la sua attitudine, correggere i suoi difetti e canalizzare la sua energia, un artigiano capace di cavar fuori dalla materia grezza un manufatto prezioso.

E così fu: Wilson non si era sbagliato. Il maestro basco stava allestendo uno spettacolo a Roma e non aveva ancora chiuso il cast. Difficile restituire l'emozione di Wilson quando, con una telefonata che lo aveva buttato giù dal letto, l'assistente gli aveva comunicato che dopo averci a lungo riflettuto, il maestro aveva deciso di dargli fiducia concedendogli un ruolo. A patto – perché c'era un patto – che Wilson andasse in giro col suo vespino (che non era passato inosservato) a tappezzare la città di volantini con la pubblicità dello spettacolo. Affare fatto! Questa era l'occasione tanto attesa, l'esorcismo che avrebbe liberato una volta per tutte Wilson Gargano dalla presenza scomoda di Jacopo Cerasa. Mentre seminava i volantini dello spettacolo per tutta la città, sebbene scritto piccolo, ogni volta che alzava il parabrezza di una macchina per infilarne uno, Wilson non riusciva a trattenersi dal far cadere lo sguardo sul suo nome: era tutto vero e stava succedendo, adesso e a Roma. Quale occasione migliore per prendersi la meritata rivincita su chi non aveva scommesso sul suo talento? Wilson sparse la voce, mandò centinaia di mail, fece decine di telefonate e invitò tutti, amici, nemici, parenti e conoscenti allo spettacolo. Invitò anche la vedova da cui era stato a pensione e, naturalmente, la sua famiglia. A cui recapitò una busta affrancata con una lettera e due biglietti omaggio che fecero molta impressione a casa, soprattutto sulla mamma.

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